Il mese è novembre, l’anno il millenovecentonovantadue.
Parto per un viaggio lungo, lunghissimo, un viaggio da trauma, per
certi versi, ma di cui ho memoria indelebile. Il primo intercontinentale.
Ogni esperienza è utile e il mio viaggio di trentacinque giorni in
Corea del Sud risulterà di impareggiabile entità. Non sarà l’unico viaggio in
quel paese, ma sicuramente quello di maggior impatto.
Mi ritrovo a Parigi con tre francesi, due dei quali sconosciuti. La
destinazione è Seoul.
Ho la mia videocamera e filmo tutto ciò che posso. Poco importa se
i miei colleghi mi guardano stupiti, anche loro godranno successivamente delle
mie riprese.
Il Boeing 747 parte e noi, come usavamo a quei tempi, siamo in Businnes
Class, quindi super comodi, con più
poltrone a disposizione, in una parte dell’aereo semivuota. Il viaggio è
lungo, dodici ore, ma è quasi tutto notturno e ne approfitto per chiudere gli
occhi.
Ho sempre amato dormire e ogni volta che mi trovo su qualcosa in
movimento, sia esso aereo, treno o macchina, il momento dell’assopimento è
pressoché immediato. Non sono molto
tranquillo, è il primo viaggio così lungo e alla mia piccola ansia contribuisce
la lettura di un articolo su Panorama. Si tratta del racconto di quanto
accaduto anni prima sullo stesso tragitto aereo, Parigi - Seoul, con lo stesso
tipo di aereo. Il Boeing 747 scomparve e non se ne seppe più niente. Complotto
internazionale? Disastro occultato? Marziani in azione? “Ma proprio ora dovevo leggerlo?”
Insomma, situazione in cui è meglio distogliere il pensiero,
pensando all’avventura imminente.
Ero eccitato da ciò che stavo vivendo, ma infastidito dall’idea di
andare verso un mondo nuovo, assieme a persone di nazionalità diversa, sapendo
di trovare sul posto solo sconosciuti e nessun italiano. Una situazione da “io là ci sono stato” , ma difficile da
affrontare con serenità.
Partito col buio da Parigi, arrivato col buio a Seoul.
Seoul, undici milioni di vite, almeno a quel tempo, città caotica,
in cui ricordo di aver dovuto prendere un taxi per poter attraversare la
strada, tante erano le auto che mi calpestavano i piedi senza fermarsi! Mi
stupisce il traffico che il cab taglia per un ‘ora, dall’aereoporto al maestoso
Hotel.Mai visto niente di simile! Il nome è “Chonsun”, della catena “Westing”.
Tutto mi incuriosisce, e risulta difficile descrivere la
dimensione esatta del building; forse contare gli uffici delle venticinque
agenzie aeree presenti può dare la misura dell’esagerazione. Catene di negozi, saloni di ogni genere, possibilità di
soddisfare ogni esigenza materiale.
Ci sediamo per la cena e tre camerieri sono fermi alle nostre
spalle, in piedi, per tutto il tempo al nostro servizio. Forse un pò
imbarazzante. Forse eccessivo avere qualcuno che ti posiziona il tovagliolo
sulle gambe.
Nella stanza tutto è esagerato, tutto è doppio.
Al mattino scosto le tendine e tra i grattacieli appare una
moschea. Bella da filmare, magari da visitare. Ma non c’è tempo, si parte in
pulmino, con il termometro vicino allo zero. Quattro ore di viaggio per
arrivare a Kunsan, grande città, se si pensa alle duecentomila persone di allora, ma inadeguata per ogni
tipo di minima esigenza, se confrontata a Seoul.
Che shock quel posto, quelle facce così diverse, quelle macchine che non rispettano
nessuna minima regola, quelle donne che, dopo aver preparato lo sputo, lo
scaricano nei vasi in fiore, all’entrata dell’hotel. Già, l’Hotel. Il Chonsun
da dimenticare.
Kunsan possedeva un solo posto per poter dormire. Era l’unico
esistente e li doveva convivere l’Amministratore Delegato di un’azienda, con
l’ultimo viaggiatore di passaggio.
Negli anni successivi, ho trovato nella stessa città cumuli di
Motel ed Hotel, nati in spazi di tempo ridottissimi, dalla mattina alla sera,
ma gli odori e i sapori sono rimasti intatti.
Nel “Victory Hotel” era impossibile vivere.
Tutto puzzava; tutto sapeva di vecchio; i fili elettrici
camminavano esterni e confusi, come gli animaletti innominabili. Eppure non
c’era di meglio. Tutti stavano li e io non potevo chiedere altro.
La prima sera telefono a Maura e piango, forse la prima volta da
adulto, dopo che mi era successo all’inizio del servizio militare. Allora
piansi cercando mia madre, ora stavo piangendo cercando mia moglie… prospettive
che cambiano nel tempo, ma alla fine, nei momenti difficili, si cerca conforto
in chi è capace di dartelo, e di solito non sono in molti a poterlo fare.
Il primo giorno a Kunsan si completa con tristezza infinita.
I miei colleghi trovati sul posto, mi portano a familiarizzare con
la downtown, cercando di evitare il quartiere americano, un pò pericoloso. Nessuna cucina internazionale,
come a Seoul, ma cose immangiabili per un occidentale, con alghe fritte e salse
piccanti, riso incollato e nella migliore delle ipotesi pizza Hut, con tanto di
ananas in evidenza. Ma si può mangiare
una pizza con ananas in Corea del Sud ? Tutti sono carini con me cercando di
favorire l’ambientamento.
Dopo la cena giro tra le vetrine “calde”.
Mi era capitato più volte
di vedere le “esposizioni” particolari di Achen, antica Aquisgrana.
Passeggiando tra le vie della città, ricche di storia, ti
imbattevi nella zona più colorita, dove
bellissime donne si mettevano in mostra
con i soli indumenti intimi. La prima volta si sa, ci si può capitare
per caso. Le altre ci si va e basta. Non è peccato appagare la vista.
Ora mi trovavo in quelle vie della disperazione dove di appagante
per la vista non c’era niente. Non era per i tratti somatici delle donne
coreane, che trovo lontanissimi dai normali canoni di bellezza occidentale. Non
era neanche per quei polpacci enormi e quei fisici così “diversi”. Il problema era….la situazione. Donne
tristi, completamente vestite, con ai piedi i figlioletti allegri e vogliosi di
giochi, alle dieci di sera. Questa immagine mi accompagnerà per sempre, e pensare a donne bandite dalla
società, costrette a prostituirsi con i loro bimbi ai piedi, è sempre stato per
me fonte di disagio.
E tutto questo in piena città, una città dove chi era trovato a leggere un giornale
pornografico veniva incarcerato. Ma forse ora non è più così.
Ho visitato quel paese tre volte, l’ultima nel novantasette, e ho
sempre notato enormi cambiamenti, nella gente, nello stile di vita, nel modo di
essere.
L’occidentalizzazione ha trasformato tutto e di questo non mi
dolgo.
Non ho mai avuto difficoltà ad inserirmi in un posto nuovo, nè problemi nel nutrirmi.
Ricordo francesi che ricevevano regolarmente il formaggio da casa,
alimento a cui non potevano rinunciare, ed introvabile in quell’oriente.
Io non sapevo cosa volesse dire essere condizionati a tal punto,
almeno così credevo. Il cibo immangiabile, l’odore acre misto all’eccessivo
calore degli ambienti in cui veniva proposto, sono elementi che mi hanno
disturbato.
Gli aperitivi a base di
birra, alghe fritte e salse piccanti, mi hanno provocato un’infiammazione
durata mesi.
Che gelo in quel posto! Che odore nei mercati! Donne e uomini
dietro ai banchi di pesce fresco, rannicchiati in uno scatolone col termometro
impazzito verso il basso.
Come al solito la mia vita del momento è stata condita da canzoni.
La musica è la mia vita.
Ascoltando adesso gli stessi brani, Brian Adams e Dire Street , mi
ritornano alla mente non solo i ricordi, come sempre accade, ma gli odori mi
penetrano nelle narici e mi sembra di essere ancora là, indietro nel tempo, nel
millenovecentonovantadue.
Ho imparato a mangiare con le “baguette”, seduto a terra, e ho
assaggiato il cane, senza saperlo. I cani randagi sono molto ricercati laggiù. Girando
per il mercato avevo notato sagome
conosciute, spellate, ma intere. Mai avrei pensato che sarebbe toccato anche a
me una simile “prelibatezza”.
Cosa rimane ancora del mio filmato? Qualche tempio buddista, qualche moschea, qualche
persona influenzata, con la mascherina sul volto per non contagiare il
prossimo, l’ultima cena con un gruppo di trenta persone e un’esperienza di
lavoro da utilizzare come gradi sulla divisa. Trentacinque giorni di
impegno senza sosta.
Ma l’uomo si abitua a tutto ed io che amo considerarmi cittadino
del mondo, capace di stare ovunque, e in qualunque condizione, racconto con
orgoglio quei giorni di vera vita, giorni pieni di ricordi.
Ho spesso sentito dire:”tu
vivi troppo con i tuoi ricordi”.
Ma cosa siamo se non abbiamo niente da raccontare, gioendo o
piangendo?
Il lavoro è finito e ci aspetta un week end libero a Seoul, stesso
hotel dell’andata e minivacanza prima del ritorno a casa. E’ l’occasione per un
giro guidato nei posti caratteristici e per ritornare a respirare aria più
vicina al mio modo di essere.
“Seoul, metropoli invivibile.
Ti ho vista più volte , e non è da tutti.”
Questa mia mania di
annotare le esperienze vissute, e poi enfatizzarle ad ogni occasione, è una
specie di malattia. Ma non voglio curarmi da questa sindrome, che ha il pregio
di far tornare il passato, di farlo rivivere a più riprese.
Ancora sull’aereo diretto a Parigi.
Coincidenza per Linate e finalmente vedo una faccia conosciuta,
Romoletto, l’autista dell’azienda in cui lavoro.
“Portami a casa , vola, che
ho bisogno di mia moglie!”.
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