Rose e
Lyseblå
Il vecchio
marinaio giunse nel piccolo paese di Mefjordvær
in una fredda giornata di luglio. Il vento, teso e pungente, spingeva le
onde oltre il molo, facendole allungare sulla piccola spiaggia bianca, al di
sotto delle piccole case di legno, colorate, per lo più, di rosso. Solo la
vecchia fabbrica del pesce, sulla palafitta che si spingeva parallela alla
punta del porto, si staccava dalle case per il suo colore bianco. L’odore dei merluzzi essiccati, appesi tutti in fila ai
sostegni di legno, si mescolava al profumo salmastro dell’aria. L’uomo, di nome
Johan Christian, posteggiò la sua vecchia roulotte, tirata da una macchina
ancora più datata, nel piccolo slargo proprio all’inizio della passeggiata sul
molo. Si sarebbe fermato lì finché ne avesse avuto voglia, fino a quando la sua
instancabile irrequietudine di nomade senza pace non lo avesse spinto a
cambiare zona. A quell’ora le strade erano deserte o quasi. I fari di un’auto si
profilarono dalla curva in fondo alla via principale. Era una macchina
familiare, di un colore come ormai non se ne vedevano più da anni. Il marinaio
si consolò, guardando la sua. Non era il solo a girare con un pezzo
d’”antikvitet”! Mentre preparava la lenza, caricando il rocchetto con del filo
nuovo, riguardò in direzione della
macchina distrattamente, ma con un quel
poco di attenzione da permettergli di
notare che l’auto era stata fermata da
due bambine. “Saranno parenti
venuti in visita”, pensò tra sé. “Accidenti!”, inveì con gesto di rabbia:
il venditore del negozio di Husöy lo
aveva imbrogliato e gli aveva rifilato un filo più sottile. Non avrebbe tirato
su che sardine! La macchina era sempre
ferma. Si sarebbe potuto dire, anzi, che
stava cercando di spostarsi per
proseguire, ostacolata dalle due bambine
che continuavano a saltellarle intorno. “Beati i bambini che han sempre voglia di giocare!”, pensò. Il
mare era veramente brutto. Un’onda saltò tanto in alto da superare lo
sbarramento dei grossi massi addossati al muraglione del molo. “Non fa niente”,
pensò deciso, adocchiando un angolo più riparato, “per ora proverò a pescare due pesci per la
cena; semmai ci tornerò più tardi, se il vento si sarà calmato”. Generalmente
dopo la mezzanotte il tempo cambiava decisamente, o in meglio o, anche, in
peggio. Anche la punta all’imboccatura della baia avrebbe potuto essere un
posto buono per pescare, a patto che il fondo non fosse stato pieno di
alghe. Una raffica di vento, più
violenta delle altre, passando tra le due case vicine, soffiò forte come un
ululato improvviso facendolo trasalire.
Si diede dello stupido: a lui il vento non aveva mai fatto paura, neppure
quando usciva in barca spingendosi al largo. Allora sì che c’era da ridere.
C’erano giornate in cui si ballava tanto
forte che, una volta tornati con i piedi per terra, si continuava a
camminare come se si fosse ancora sulla gobba dell’onda.
Ecco, la
canna era armata, la scatoletta degli ami e il secchio pronti. Avrebbe portato
anche il retino. La macchina, intanto, sopraggiunse a velocità piuttosto forte
superando di molto il limite dei trenta indicato dal cartello. Sgommando, nello
slargo tra le case e la roulotte, eseguì un’ardita inversione di marcia con una
sola manovra e, accelerando ulteriormente, ritornò sulla strada da dove era
arrivata, sparendo, in un attimo, dietro la curva. L’uomo guardò le nuvole
correre rapide, scure e accavallate le une sulle altre.
Correvano
tanto veloci che Johan Christian si sentì sbandare, quasi fosse stato lui
stesso un corpo in corsa nell’aria burrascosa. Avrebbe indossato anche la cerata e gli stivaloni di gomma. Sulla
strada, intanto, era apparso un piccolo
cane bianco che se ne andava tranquillamente a passeggio come se il resto del
mondo non fosse esistito, soffermandosi,
ora vicino al muretto di un giardino, ora sotto un cespuglio o vicino a un
palo. Non si curava del vento che gli arruffava il lungo pelo. L’uomo lo
chiamò, ma il cane non lo degnò di uno sguardo. La lunga figura allampanata di
un individuo gli passò vicino. Da dove era sbucato? Nessuno dei due salutò
l’altro, ma quello sguardo gli trapassò l’anima. Un brivido innaturale lo fece sussultare.
Strano, neppure il vento lo aveva mai fatto rabbrividire in quel modo.
Dicevano, al suo paese, quando era bambino, che quel brivido era il diavolo, il freddo della morte che si
avvicinava, travestendosi da viandante. Lo guardò allontanarsi lentamente. Come
camminava piano! Chissà perché desiderò che accelerasse il passo e sparisse
subito dalla sua vista. Avrebbe
aspettato un attimo, poi sarebbe andato a pescare. Si sorprese a chiedersi dove
fossero finite le due bambine. Forse la mamma le aveva chiamate per la cena.
Entrò nella sua roulotte per indossare un altro maglione, l’ultimo che gli
aveva fatto la sua adorata moglie prima di andarsene all’altro mondo. Quanto
gli mancava Charlotte! Se l’avesse ancora avuta vicino, non sarebbe diventato
un orso solitario sempre alla ricerca di un posto in cui cercare pace. Mai si sarebbe ridotto a girovagare
come uno zingaro, mai… Accarezzò la morbida lana immaginandosi di toccare, con
le sue, le mani di Charlotte. Forse, al culmine disperato dell’illusione, le
sentì davvero quelle mani, filo dopo filo, in un intreccio di vecchi ricordi.
Grosse lacrime gli scivolarono tra le rughe profonde del viso, seguendone il
percorso come un ruscello percorre il suo alveo tortuoso. Dei pugni ripetuti e
improvvisi alla porta della roulotte lo fecero trasalire. Quasi immediatamente
altri due pugni ancora più forti e raccapriccianti. Si asciugò il viso con fare
rabbioso e aprì la porta con violenza quasi a voler cogliere di sorpresa gli autori di quel gesto
così maleducato e irrispettoso. Sentì di odiarli ancor prima di averli visti:
come potevano permettersi di violare il
suo dolce ricordo? Si sorprese nello scorgere le due bambine proprio lì, vicine
alla sua roulotte. Le creature, dall’aspetto tanto innocente, vedendolo,
cominciarono a ridere e a muovere un passo di danza come un girotondo
infantile. L’uomo scrollò il capo, accennando un sorriso di rimprovero. Una
delle due indossava una mantellina e un
berretto a larghe falde in tessuto cerato
color rosa come pure rosa erano gli stivaletti di gomma. L’altra era tutta vestita di celeste.
Entrambe bionde con grandi occhi azzurri. Erano molto graziose, pensò l’uomo,
sarebbero sembrate due angeli se qualcosa in quello sguardo non lo avesse messo
quasi a disagio. Ridendo vezzosamente risposero al suo saluto e corsero via
saltellando e canticchiando un’antica
filastrocca. Quella filastrocca… l’aveva già sentita tanti anni
addietro. Trafficò ancora in roulotte cercando un vecchio libro, l’unico libro
di fiabe conservato. Dove era andato a finire? Era sicuro di averlo portato con
sé. Rovistò nei contenitori sotto il divano, nei pensili, gettando fuori tutto
ciò che gli venne tra le mani. Più cose ammassava sui piccoli divani, più
sentiva crescere in lui un’ansia febbrile, da farlo star male. Doveva trovare
quel libro, doveva leggere di nuovo quelle parole, doveva sapere chi erano le
due bambine. Rammentava una storia che da piccolo gli faceva sempre tanta
paura; ricordava le notti insonni mentre restava rannicchiato sotto la pesante
coperta, nascosto e fermo, vigile al minimo
rumore, cercando quasi di non respirare
La mamma, però, non aveva mai saputo delle sue angosce, la sua voce era
così tranquilla mentre leggeva la sera,
seduta vicino al suo letto. Johan Christian sapeva che, se fosse venuta al
corrente delle sue paure, la mamma avrebbe smesso di leggergliele. Si guardò
intorno: che pasticcio, adesso avrebbe dovuto rimettere tutto a posto. Stupido,
si era proprio comportato da stupido, aver avuto di nuovo paura di una
canzoncina come quando era un bambino!
Ma che cosa stavano cantando quelle due là fuori? C’era, in quelle voci,
qualcosa di strano, avrebbe quasi detto di diabolico. L’uomo stava diventando
irrequieto. Quella macchina, prima, non era andata via, no, quella macchina era
… fuggita via!Le onde si erano
rigonfiate con più forza e, adesso, si accavallavano tutte sorpassando il molo.
Ebbe la tentazione di riagganciare la roulotte alla macchina e scappare. Si
diede nuovamente dello sciocco. Qualche anno prima non si sarebbe fatto
suggestionare così da una insensata
combinazione d’eventi. Grandi nuvoloni avevano completamente ricoperto le
montagne intorno; si erano abbassati talmente da sfiorare i tetti delle case. Adesso
ricordava la filastrocca: narrava di due piccole streghe, Rose e Lyseblå, che
vivevano sull’isola di Senja. Si presentavano sempre come due bambine dai volti
ingenui e sorridenti. Arrivavano saltellando e giocando. Chiunque si fosse
fermato ad ascoltarle, sarebbe stato catturato dalle loro voci. “Mio Dio!”
esclamò Johan Christian e cadde in ginocchio, facendosi il segno della croce
“non voglio morire adesso. Ti prego, salvami, non voglio morire” lo aveva
gridato con una forza inaudita, mentre i singulti del pianto gli stavano
squassando il petto. Si prese la testa tra le mani. Le sentì, erano dietro la
porta della roulotte. Stavano ridendo perfidamente. Bussarono di nuovo con
forti pugni ripetuti.
Com’era raccapricciante quel loro bussare L’uomo si alzò
di scatto e spalancò con forza la porta quasi a volerla scardinare. “Allora streghe, cosa volete, dannate!
Eccomi, sono qui. Volete la mia anima, volete il mio corpo? Mai: Non mi avrete
mai . Sparite subito dalla mia vista. Via! Mi avete sentito?” La sua voce era un ruggito che prorompeva
dalla sua anima tormentata. Il vento la sovrastava e il mare cercava
d’inghiottirne ogni suono. Le case del
paese sembravano perdersi dietro il pulviscolo d’acqua che si levava dalle
onde. Dov’erano tutte le anime di quel maledetto paese? Rose e Lyseblå lo
presero per le braccia tirandolo verso di loro. “Lasciatemi”, gridò con voce sempre più alterata il pover’uomo. Ma
le due bambine erano dotate di una forza che non poteva paragonarsi a nulla di
umanamente possibile. I loro sguardi si andavano alterando a vista d’occhio e i
volti, inizialmente infantili, adesso si erano trasformati, la pelle raggrinzita,
i capelli scarmigliati. Le mani che lo tenevano prigioniero, erano diventati
artigli dalle unghie ricurve. Risero sguaiatamente, con le bocche deformi,
alitandogli addosso un fiato venefico. Johan Christian, al culmine della disperazione, si liberò con un violento strattone e corse veloce sul molo, su ciò che
ormai del molo era rimasto. Il mare lo aveva
ricoperto quasi del tutto. Si
volse indietro ansimando. Rose e Lyseblå avevano accesso un fuoco e la sua
roulotte vi stava bruciando dentro. “Non
mi avrete mai” gridò di nuovo,
alzando il braccio in gesto di sfida. Si girò verso il mare andando
incontro all’onda che stava sopraggiungendo più alta di tutte e vi si lasciò
andare cercandovi l’ultimo respiro di pace. Un sottile raggio di luce si stava muovendo dietro la punta del capo.
Il tempo stava cambiando. A mezzanotte ci sarebbe stato il sole. Due uomini,
usciti per strada a scrutare il cielo,
decisero che di lì a poco sarebbero andati a pescare. Il cane passò di nuovo
soffermandosi vicino a qualche muretto, annusando l’aria. L’uomo allampanato si
fermò un secondo per una rapida occhiata alla carcassa della roulotte e
proseguì indifferente. Le due
bambine avevano ripreso a correre e a saltellare, ridendo e canticchiando. I
fari di una macchina si erano profilati nella curva della strada.
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