West Virginia

West Virginia
Buckhannon, West Virginia dicembre 1996

lunedì 31 marzo 2014

Le stagioni...

Tre età dell'uomo (Tiziano)


A vent’anni si danza al centro del mondo.

A trenta si vaga dentro il centro.

A cinquanta si cammina lungo la circonferenza, evitando di guardare sia l’esterno sia l’interno.

In seguito non importa: privilegio dei bambini e dei vecchi è essere invisibili.

Christian Bobin


Christian Bobin è nato nel 1951 a Le Creusot (città che non ha mai lasciato). Poeta e scrittore molto conosciuto in Francia, per la sua scrittura intensaed efficace, che porta alla luce un sentire profondo, condivisibile intorno all’uomo e al suo contesto fatto di materia “vita”. “E’ uno di quegli scrittori di cui in Italia non si saprebbe trovare l’equivalente, che vive nell’attesa silenziosa che la vita prenda forma a partire dal fondo di sé, che diventi parola. Nella sua scrittura la vita è appesa alle piccole cose quotidiane, a cose esili e fragili. Di questo autore in italiano sono apparsi “L’uomo che cammina”, su Gesù, “Francesco e l’infinitamente piccolo”, su San Francesco, “Resuscitare”, “Elogio del nulla”, “Presenze”, “Autoritratto” e “Geai”.




venerdì 28 marzo 2014

Ai confini con la realtà-La clausola


Alcune sere fa mi sono rituffato nell'antico mondo di "Ai confini con la realtà.
Ho alcuni episodi da finire, contenuti in un cofanetto comprato a Natale, e questa sera eravamo tutti d'accordo nel passare un'ora in tensione: la  sigla e la voce di commento, ancor oggi, a distanza di anni, mi mettono i brividi.
Il nome originale della serie era..... The Twilight zone... di Rod Serling... 

2009...
I miei ricordi legati all’infanzia e all’adolescenza hanno il colore bianco e nero. Non so perché.
Ho bene impresse le svariate serie di filmetti americani che “attaccavano”allo schermo i genitori di allora, e conseguentemente noi bambini. Particolarmente triste era per me la domenica: Maigret, i Miserabili, Il Conte di Montecristo, i musical del Quartetto Cetra.
Tutto nero… bianco e nero.
Tra le tante cose che vedevo in quel periodo c’era una serie che mi ha sempre intrigato: Ai confini con la realtà”.
Erano episodi di 25 minuti che mi mettevano i brividi, e già questo era motivo di “cattura”.
A dire il vero era per me sufficiente la musica iniziale, e il commento, sempre uguale, proposto da una voce suadente ed inquietante allo stesso tempo.
Per quanto riguarda i contenuti, ricordo bene come rimanessi di sasso davanti a certi finali inaspettati.
Per molti anni certe scene sono sparite dalle nostre case. Poi, come sempre accade, c’e’ il riflusso… basta aspettare. Ciò che sembra dimenticato e obsoleto ritorna di moda, e magari anche gli ultimi arrivati hanno la possibilità di vedere come eravamo un tempo, valutando autonomamente la validità delle vecchie proposte.
Gli episodi di “Ai confini con la realtà” sono andati recentemente in vendita in edicola, pubblicizzati alla TV, e la serie intera, durata anni, e’ stata riproposta elegantemente in cofanetti e volumi differenti. Io ho voluto rivederne alcuni, pur sapendo, per esperienza, che difficilmente si riescono a provare gli entusiasmi di un tempo.
Spesso mi e’ capitato di cercare film che avevano suscitato in me entusiasmo, ma rivedendoli, ho sempre provato un po’ di delusione. Fortunatamente, o purtroppo, noi cambiamo, e l’immobilità di alcune cose che ci circondano ci trova impreparati. Ho comunque trovato qualche episodio e ho messo alla prova i miei figli.
Anche loro sono rimasti colpiti, in un misto di angoscia e mistero, condito da 25 minuti di sana paura. Visti i risultati ho deciso di comprare il cofanetto della prima serie televisiva, quella del 1959. A quei tempi avevo 3 anni e quindi gli episodi contenuti nel box sono per me assolutamente sconosciuti. A grande richiesta, le ultime due sere abbiamo visto alcune puntate. Tutti sul divano quindi, luci  spente per ricreare l’atmosfera, e un episodio dietro all’altro, alla ricerca dell’overdose di paura, che tanto piace a grandi e piccoli.
Al di là del forte impatto emotivo, volutamente ricreato, i contenuti sono quasi sempre irreali, come e’ giusto che sia, data la serie. Ma alla fine del movie ci si aspetta sempre qualcosa che spesso non e’ quello che volevamo o ci attendevamo e allora si va alla ricerca della motivazione, della ragione di esistere, di qualcosa che non e’ solo istinto.
Sentendomi responsabile della visione, mi e’ venuto spontaneo giustificare i finali con frasi tipo: “Eppure se cerchi, trovi un significato profondo, molto attuale”.
Ma ci credo davvero.

Ed ecco lo spunto per le mie riflessioni...



La scena si apre in una camera da letto.
Il protagonista è un ipocondriaco poco più che quarantenne, in ottimo stato di salute, ma sicuro di essere malato e vicino alla morte.
Le sue imprecazioni verso l’ignoto fanno riferimento alla brevità della vita di un essere umano rispetto agli avvenimenti della storia e agli elementi della natura.
Il suo urlo di dolore e’ afferrato da un’entità impalpabile, il Diavolo in persona, che gli propone il classico contratto: il baratto dell’anima con l’immortalità.
Scambio allettante. Con una clausola in più, a favore dell’uomo: in qualsiasi momento si fosse stancato e avesse sentito la necessità di lasciare il mondo terreno, sarebbe stato possibile farlo, per effetto di una morte dolce e senza sofferenze.
Quanti vantaggi!
Una firmetta e via, verso una vita per sempre.
Ma non e’ così facile.
Niente scalfisce la pelle dell’uomo.
Non un treno che passa sul suo corpo.
Non una dose di veleno micidiale.
Non un autobus sul viso.
Una noia senza fine, senza alcuna emozione.
Ma ecco il colpo di genio.
Una passeggiata sul tetto di casa e… giù dal grattacielo… da lì sarebbe stato impossibile salvarsi e anche il Diavolo avrebbe dovuto arrendersi.
Ma la moglie lo segue e nel tentativo di fermarlo cade…
Ma certo… rendersi colpevole e’ la via sicura per la sedia elettrica… in quello stato americano!
Polizia? Ho ucciso mia moglie”.
Ma la giustizia non segue il volere dell’uomo e il giudice decreta il carcere a vita.
Che beffa, raggiunta inaspettatamente l’immortalità, ottenuto un traguardo che tutti vorrebbero... tutto inutile.
Cosa serve un immortale in prigione?
Meglio usare la clausola di riserva e aspettare un attacco di cuore.

Ma e’ così banale questo micro racconto?



La ricerca dell’immortalità e della giovinezza per sempre e’ cosa comune e riguarda tutti, forse più oggi di un tempo.
La paura di passare a miglior vita e’ cosa palese, forse più oggi di un tempo.
L’angoscia derivante da ciò che non conosciamo, e a cui prima o poi dovremo arrivare, e’ palpabile, forse più oggi di un tempo.
La voglia di emozioni e la fuga dalla noia e’ elemento che tocca molti, forse più oggi di un tempo.
La certezza di essere meglio di altri, più scaltri di altri, capaci di gabbare il prossimo, e’ cosa usuale, forse più oggi di un tempo.
L’incapacità di godere di ciò che si ha, ricercando costantemente qualcosa in più, o comunque di diverso, e’ l’emblema della nostra epoca.
E la nostra insoddisfazione, la nostra ricerca affannosa del gradino superiore, possono trasformarsi in una gabbia, la nostra gabbia, da cui e’ impossibile uscire, se non a carissimo prezzo.

Chissa’ se Rod Serling aveva in mente questo quando ha scritto :”La Clausola”?



mercoledì 26 marzo 2014

Storie del passato


Lei

Lei era ormai vecchia… beh, in realtà avrà avuto una sessantina d’anni, ma ai mie occhi era anziana.
Aveva sofferto, per effetto delle vicissitudini legate alla guerra, e per una vita non certo felice, con un marito padre padrone, che sperperava i tanti soldi disponibili in feste e donne, mentre lei doveva misurare ogni tipo di spesa.
Lui non era cattivo, ma aveva nel DNA il distorto ruolo del capo famiglia, quell’immagine che tanto andava di moda agli inizi dello scorso secolo, atteggiamento difficile da modificare. Lei se ne andò molto prima di lui.
Ricordo un giorno, un episodio negativo che la turbò sino a condurla alle lacrime.
Era andata a fare la spesa, e per qualche strano motivo aveva perso il portafoglio, una misera busta che conteneva ciò che lui le aveva dato, come cifra quotidiana destinata all’acquisto del  mangiare.
Rifece la strada più volte, rientrò nei negozi disperata, si aggirò nel quartiere, accecata dalla preoccupazione, più che dalla rabbia. Ma niente, non c’era stato verso. Sarebbe stata sgridata come una bambina? Lo avrebbe sentito urlare?
Arrivò a casa piangendo e raccontò tutto... svuotò il sacco e si liberò.
“.. ma sì, vada come vada, non l’ho mica fatto apposta!”
Lui la guardò e… sdrammatizzò, si mise a ridere e lei, che si era mantenuta a debita distanza, incredula, diede dimostrazione di riconoscenza per quella reazione composta e adeguata alla pochezza dell’evento… fece un piccolo gesto che aveva un grande significato, anche se lui non poteva capire, come d’altronde accadeva da una vita.
Rimanendo sulla soglia della porta della cucina, alzò il braccio e, fissandolo negli occhi azzurri, avvicinò alla bocca il palmo della mano, contrasse le labbra e soffiò con estrema dolcezza.
Il bacio partì, uscì dalla bocca, rimbalzò sul polso e attraversò la mano, disperdendosi nell’aria.
Lei si convinse di aver centrato l’obiettivo, e questa fu alla fine la cosa più importante.
Non ho goduto abbastanza la mia nonna!


martedì 25 marzo 2014

Acqua alla gola...


L’onda era sempre più alta,
sempre più frequente.
E ogni volta il livello aumentava,
e oramai il mento era coperto.
Questi i miei ultimi minuti,
minuti per pentirsi, minuti per gioire,
minuti per perdonare od odiare per sempre.
Un minuto può durare una vita,
e non si sa come riempirlo.
In questo caso un minuto era un minuto, solo un minuto.
Nessun pentimento e nessuna gioia,
nessun perdono e nessun odio.
Non spenderò il mio ultimo tempo per pensare,
lascerò solo scorrere il film,
le immagini più importanti della mia vita,
ci sei anche tu, anche adesso che ho l’acqua alla gola.




lunedì 24 marzo 2014

Domande senza risposte...ci sarà un senso!?


Ci sarà un senso…

Bastano poche onde per far capire la nostra esatta dimensione.
Bastano poche onde, nemmeno troppo alte, persino cavalcabili dai più esperti…
e nell’anomala disgrazia ci ritroviamo uniti, tutti, indistintamente.
Ora non c’è nessuno contro cui potersi scatenare…
il nemico è conosciuto, ma inattaccabile.
Le immagini scorrono, vorremmo scappare, ma…
i disastri sono magneti e attirano il ferro che c’è in noi.
Il dolore è composto, contenuto, rassegnato.
Comportamenti ammirevoli, condannabili, detestabili.
Spiegazioni cercate con la forza, razionalità e fede.
Voglia di verità e domande imbarazzanti.
Perché lasci che ciò accada,
perché decidi che tutto ciò debba materializzarsi davanti a noi….
Dov’eri tu mentre i corpi si mischiavano al fango?
Non è il momento delle verità, non ancora.
Forse qualche risposta può arrivare a chi chiede,
a chi domanda il motivo della mia velata tristezza,
nelle cose che scrivo, in quelle che dico.
E’ una vita piena di insidie, ciò che sembra non e’….
la festa si trasforma in lutto
il momento lieto è breve, e spesso ci illude.
La vecchiaia serena è un lusso per pochi.
Vivo con la certezza che la mannaia sia dietro all’angolo.
Vivo con la speranza che colpisca me prima dei miei figli.
Poi arriveranno le risposte,
e tutto ciò che ora è oscuro si illuminerà.
La notte sarà solo giorno …
e noi daremo un senso all’incomprensibile.





venerdì 21 marzo 2014

Il Labirinto


Il Labirinto

Alla fine del labirinto c’era la vita.
Il giovane e forte entrò con impeto
pieno di attrezzi e cattiveria.
I muri dovevano cadere ...
niente lo avrebbe fermato.
Ma là regnava il buio,
i muri erano impenetrabili,
le vie tutte uguali.
La forza non servì.
Il giovane e furbo entrò, con destrezza palese,
pieno di sogni e intelligenza.
I muri dovevano diventare invisibili,
perché niente lo avrebbe fermato.
Ma in quel luogo l’intelligenza inciampava,
la pressione premeva la nuca,
la luce accesa era spenta.
Niente servì.
L’uomo non più giovane, non più forte, non più intelligente
si fermò a riflettere, ma…
non perse tempo a cercare la vita,
lui la cavalcava già’.


giovedì 20 marzo 2014

Riflessioni ... finali


Settembre 2008

A Roberto.

Partecipare a un’onoranza funebre è un fatto tanto comune quanto sgradevole.
Forse “sgradevole” potrebbe essere sostituito da aggettivi differenti, ma l’evento non sarà mai associato a un ricordo positivo. I nostri “luoghi di pace”, quelli italiani intendo, non aiutano a vivere con serenità un momento che spesso significa “fine del dolore”, magari dopo una lunga malattia. Altra cosa in America, dove ho potuto valutare con i miei occhi come il verde assoluto, l’ordine,  l’uguaglianza e la semplicità dei sepolcri, non mettono addosso l’ansia che si prova nei nostri cimiteri.
Ripensando all’esperienze personali posso dire che tutte le cerimonie funebri a cui ho partecipato mi hanno provocato dolore variabile, in funzione del grado di parentela o meglio, del grado di affetto, e ogni volta ho cercato di ripercorrere con la mente i momenti  che mi legavano alla persona che veniva ricordata in quel contesto.
La logica delle cose fa si che ci si abitui all’idea che prima  o poi possa mancare un genitore o comunque esseri più grandi di noi e in questo senso credo di aver pagato quasi per intero il tributo. Ma anche un funerale può trasformarsi in un  momento di riflessione che non è solo di carattere religioso, ma l’osservazione attenta di quel particolare spazio temporale, in quel preciso contesto, può diventare la  valutazione di una o più vite.
E’ quello che mi è capitato ieri in quello che è stato “l’evento conclusivo” più “importante” a cui abbia mai  partecipato. L’aggettivo “importante” è utilizzato soltanto per evidenziare il livello dei partecipanti e non per stabilire una “graduatoria di merito”, dal momento che è palese che nell’atto finale tutte le differenze si annullano. Non so cosa accade dopo.
Non farò nomi e tanto meno cognomi, anche se mi piacerebbe rendere omaggio a un uomo che avevo avuto la fortuna di conoscere molti anni fa, in ambito lavorativo, e di cui avevo grande stima.
Era diventato davvero importante, quasi  irraggiungibile ma, pur nella rigidità che il ruolo richiedeva, aveva mantenuto la voglia e la capacità  di privilegiare  il  contatto umano, elemento di cui spesso si sente il bisogno, e quando lo si nominava difficilmente uscivano sguardi e parole fuori misura. Quanti episodi potrei raccontare!
Se ne è andato giovanissimo, forse appena arrivato alla pensione, ma il suo stato precario di salute non era di pubblico dominio.
In quella piazza ho trovato gente conosciuta direttamente e persone decisamente irraggiungibili, alcune delle quali arrivate in modo organizzato, con un bus dedicato.
In quella grande  piazza c’era tutta la capacità di un uomo di raccogliere consensi da tutte le direzioni possibili.
Ho visto tornare il passato antico rappresentato dalle persone che lo avevano conosciuto agli inizi della sua storia lavorativa, ho visto il passato più recente rappresentato da tanti collaboratori di diverse nazionalità, ho visto il presente e anche il futuro… perché una parte di mondo andrà avanti con gli stessi protagonisti. E poi i familiari, e il contatto tra loro e i conoscenti più intimi.
Forse qualcuno era presente per obbligo, come accade in tutte le circostanze simili, ma credo che la maggior parte delle anime  fosse spinta dai miei stessi sentimenti, e cioè desiderasse essere presente nell’atto conclusivo, per un  ultimo doveroso omaggio.
E’ un mondo dove niente avviene per caso, e anche il sedersi su di una panca, in una determinata posizione, può avere un significato.
Tutto nella norma. Ma la mia riflessione principale, non supportata da un’approfondita conoscenza di tutti i presenti e quindi basata su istinto e opinioni, è che in quella chiesa ci fossero solo parenti e figure legate al mondo del lavoro.
Gli ingranaggi che regolano i movimenti della nostra quotidianità stritolano le leggi del buon senso e tengono a far risultare l’uomo segregato all’interno di un sistema che tutto macina, restituendo solo scarti.
Non c’è niente di politico in questo mio pensiero, ma la consapevolezza che la vita dura un attimo e non è nemmeno un attimo felice, non tutto almeno. Parlo per esperienza personale.
In una dimensione infinitamente più piccola, sono passato anche io nel sentiero del “… senza di me il mondo non può andare avanti…”, salvo poi capire che il mondo corretto non è quello che mi impedisce di passare il giusto tempo con i miei cari, non é quello che annienta i miei interessi personali.
Ma è solo un punto di vista, peraltro diverso da quello che avevo anni fa, e sicuramente condizionato da fattori diversi e mutevole da persona a persona.
Il risultato è che tutti finiamo nello stesso posto, allo stesso modo, più o meno giustamente.
La consapevolezza di questa situazione non impedisce noi poveri mortali di proseguire con le nostre scelte sbagliate, e solo fatti estremi possono farci cambiare direzione, come fumatori incalliti che trovano la forza di smettere solo dopo un infarto.
Discorsi retorici, luoghi comuni, leggende metropolitane, storie popolari… tutto vero, ma se potessi disegnare  adesso il mio mondo ideale, la mia giornata ideale, il mio tempo ideale, inventerei un contenitore capace di miscelare in maniera equa gli interessi, i doveri, i piaceri, i diritti, le fatiche, i riposi e non permetterei a nessuno… a nessuno… di impormi quale degli ingredienti debba essere il più importante.
Che sia questa la saggezza legata alla maturità?

Quella piazza, quel momento, quell’uomo, resteranno per sempre con me.

mercoledì 19 marzo 2014

Corea del Sud



Il mese è novembre, l’anno il millenovecentonovantadue.
Parto per un viaggio lungo, lunghissimo, un viaggio da trauma, per certi versi, ma di cui ho memoria indelebile. Il primo intercontinentale.
Ogni esperienza è utile e il mio viaggio di trentacinque giorni in Corea del Sud risulterà di impareggiabile entità. Non sarà l’unico viaggio in quel paese, ma sicuramente quello di maggior impatto.
Mi ritrovo a Parigi con tre francesi, due dei quali sconosciuti. La destinazione è  Seoul.
Ho la mia videocamera e filmo tutto ciò che posso. Poco importa se i miei colleghi mi guardano stupiti, anche loro godranno successivamente delle mie riprese.
Il Boeing 747 parte e noi, come usavamo a quei tempi, siamo in Businnes Class, quindi super comodi, con più  poltrone a disposizione, in una parte dell’aereo semivuota. Il viaggio è lungo, dodici ore, ma è quasi tutto notturno e ne approfitto per chiudere gli occhi.
Ho sempre amato dormire e ogni volta che mi trovo su qualcosa in movimento, sia esso aereo, treno o macchina, il momento dell’assopimento è pressoché  immediato. Non sono molto tranquillo, è il primo viaggio così lungo e alla mia piccola ansia contribuisce la lettura di un articolo su Panorama. Si tratta del racconto di quanto accaduto anni prima sullo stesso tragitto aereo, Parigi - Seoul, con lo stesso tipo di aereo. Il Boeing 747 scomparve e non se ne seppe più niente. Complotto internazionale? Disastro occultato? Marziani in azione? “Ma proprio ora dovevo leggerlo?”
Insomma, situazione in cui è meglio distogliere il pensiero, pensando all’avventura imminente.
Ero eccitato da ciò che stavo vivendo, ma infastidito dall’idea di andare verso un mondo nuovo, assieme a persone di nazionalità diversa, sapendo di trovare sul posto solo sconosciuti e nessun italiano. Una situazione da “io là ci sono stato” , ma difficile da affrontare con serenità.
Partito col buio da Parigi, arrivato col buio a Seoul.
Seoul, undici milioni di vite, almeno a quel tempo, città caotica, in cui ricordo di aver dovuto prendere un taxi per poter attraversare la strada, tante erano le auto che mi calpestavano i piedi senza fermarsi! Mi stupisce il traffico che il cab taglia per un ‘ora, dall’aereoporto al maestoso Hotel.Mai visto niente di simile! Il nome è  “Chonsun”, della catena “Westing”.
Tutto mi incuriosisce, e risulta difficile descrivere la dimensione esatta del building; forse contare gli uffici delle venticinque agenzie aeree presenti può dare la misura dell’esagerazione. Catene di negozi,  saloni di ogni genere, possibilità di soddisfare ogni esigenza materiale.
Ci sediamo per la cena e tre camerieri sono fermi alle nostre spalle, in piedi, per tutto il tempo al nostro servizio. Forse un pò imbarazzante. Forse eccessivo avere qualcuno che ti posiziona il tovagliolo sulle gambe.
Nella stanza tutto è esagerato, tutto è doppio.                                                   
Al mattino scosto le tendine e tra i grattacieli appare una moschea. Bella da filmare, magari da visitare. Ma non c’è tempo, si parte in pulmino, con il termometro vicino allo zero. Quattro ore di viaggio per arrivare a Kunsan, grande città, se si pensa alle duecentomila  persone di allora, ma inadeguata per ogni tipo di minima esigenza, se confrontata a Seoul.
Che shock quel posto, quelle facce così  diverse, quelle macchine che non rispettano nessuna minima regola, quelle donne che, dopo aver preparato lo sputo, lo scaricano nei vasi in fiore, all’entrata dell’hotel. Già, l’Hotel. Il Chonsun da dimenticare.
Kunsan possedeva un solo posto per poter dormire. Era l’unico esistente e li doveva convivere l’Amministratore Delegato di un’azienda, con l’ultimo viaggiatore di passaggio.
Negli anni successivi, ho trovato nella stessa città cumuli di Motel ed Hotel, nati in spazi di tempo ridottissimi, dalla mattina alla sera, ma gli odori e i sapori sono rimasti intatti.
Nel “Victory Hotel” era impossibile vivere.
Tutto puzzava; tutto sapeva di vecchio; i fili elettrici camminavano esterni e confusi, come gli animaletti innominabili. Eppure non c’era di meglio. Tutti stavano li e io non potevo chiedere altro.
La prima sera telefono a Maura e piango, forse la prima volta da adulto, dopo che mi era successo all’inizio del servizio militare. Allora piansi cercando mia madre, ora stavo piangendo cercando mia moglie… prospettive che cambiano nel tempo, ma alla fine, nei momenti difficili, si cerca conforto in chi è capace di dartelo, e di solito non sono in molti a poterlo fare.
Il primo giorno a Kunsan si completa con tristezza infinita.
I miei colleghi trovati sul posto, mi portano a familiarizzare con la downtown, cercando di evitare il quartiere americano, un pò  pericoloso. Nessuna cucina internazionale, come a Seoul, ma cose immangiabili per un occidentale, con alghe fritte e salse piccanti, riso incollato e nella migliore delle ipotesi pizza Hut, con tanto di ananas in evidenza. Ma si può  mangiare una pizza con ananas in Corea del Sud ? Tutti sono carini con me cercando di favorire l’ambientamento.
Dopo la cena giro tra le vetrine “calde”.
Mi era capitato più  volte di vedere le “esposizioni” particolari di Achen, antica Aquisgrana.
Passeggiando tra le vie della città, ricche di storia, ti imbattevi nella zona  più colorita, dove bellissime donne si mettevano in mostra  con i soli indumenti intimi. La prima volta si sa, ci si può capitare per caso. Le altre ci si va e basta. Non è peccato appagare la vista.
Ora mi trovavo in quelle vie della disperazione dove di appagante per la vista non c’era niente. Non era per i tratti somatici delle donne coreane, che trovo lontanissimi dai normali canoni di bellezza occidentale. Non era neanche per quei polpacci enormi e quei fisici così  “diversi”. Il problema era….la situazione. Donne tristi, completamente vestite, con ai piedi i figlioletti allegri e vogliosi di giochi, alle dieci di sera. Questa immagine mi accompagnerà  per sempre, e pensare a donne bandite dalla società, costrette a prostituirsi con i loro bimbi ai piedi, è sempre stato per me fonte di disagio.
E tutto questo in piena città, una città  dove chi era trovato a leggere un giornale pornografico veniva incarcerato. Ma forse ora non è più così.
Ho visitato quel paese tre volte, l’ultima nel novantasette, e ho sempre notato enormi cambiamenti, nella gente, nello stile di vita, nel modo di essere.
L’occidentalizzazione ha trasformato tutto e di questo non mi dolgo.
Non ho mai avuto difficoltà ad inserirmi in un posto nuovo, nè  problemi nel nutrirmi.
Ricordo francesi che ricevevano regolarmente il formaggio da casa, alimento a cui non potevano rinunciare, ed introvabile in quell’oriente.
Io non sapevo cosa volesse dire essere condizionati a tal punto, almeno così credevo. Il cibo immangiabile, l’odore acre misto all’eccessivo calore degli ambienti in cui veniva proposto, sono elementi che mi hanno disturbato.
Gli aperitivi  a base di birra, alghe fritte e salse piccanti, mi hanno provocato un’infiammazione durata mesi.
Che gelo in quel posto! Che odore nei mercati! Donne e uomini dietro ai banchi di pesce fresco, rannicchiati in uno scatolone col termometro impazzito verso il basso.
Come al solito la mia vita del momento è stata condita da canzoni. La musica è la mia vita.
Ascoltando adesso gli stessi brani, Brian Adams e Dire Street , mi ritornano alla mente non solo i ricordi, come sempre accade, ma gli odori mi penetrano nelle narici e mi sembra di essere ancora là, indietro nel tempo, nel millenovecentonovantadue.
Ho imparato a mangiare con le “baguette”, seduto a terra, e ho assaggiato il cane, senza saperlo. I cani randagi sono molto ricercati laggiù. Girando per il mercato avevo notato  sagome conosciute, spellate, ma intere. Mai avrei pensato che sarebbe toccato anche a me una simile “prelibatezza”.
Cosa rimane ancora del mio filmato? Qualche  tempio buddista, qualche moschea, qualche persona influenzata, con la mascherina sul volto per non contagiare il prossimo, l’ultima cena con un gruppo di trenta persone e un’esperienza di lavoro da utilizzare come gradi sulla divisa. Trentacinque giorni di impegno  senza sosta.
Ma l’uomo si abitua a tutto ed io che amo considerarmi cittadino del mondo, capace di stare ovunque, e in qualunque condizione, racconto con orgoglio quei giorni di vera vita, giorni pieni di ricordi.
Ho spesso sentito dire:”tu vivi troppo con i tuoi ricordi”.
Ma cosa siamo se non abbiamo niente da raccontare, gioendo o piangendo?
Il lavoro è finito e ci aspetta un week end libero a Seoul, stesso hotel dell’andata e minivacanza prima del ritorno a casa. E’ l’occasione per un giro guidato nei posti caratteristici e per ritornare a respirare aria più vicina al mio modo di essere.
Seoul, metropoli invivibile. Ti ho vista più volte , e non è da tutti.”
Questa mia mania  di annotare le esperienze vissute, e poi enfatizzarle ad ogni occasione, è una specie di malattia. Ma non voglio curarmi da questa sindrome, che ha il pregio di far tornare il passato, di farlo rivivere a più riprese.
Ancora sull’aereo diretto a Parigi.
Coincidenza per Linate e finalmente vedo una faccia conosciuta, Romoletto, l’autista dell’azienda in cui lavoro.
Portami a casa , vola, che ho bisogno di mia moglie!”.




martedì 18 marzo 2014

La donna polacca...


Una persona a me cara, quando era molto giovane, realizzò questa particolare ceramica che ribattezzò “La Donna Polacca”, perché il pensiero di alcuni orrori legati ai conflitti umani lo aveva trascinato verso quella creazione carica di sofferenza.
Col passare degli anni capitò l’occasione di partecipare ad un concorso, dove era richiesto un compito preciso e una crasi artistica tra la ceramica vetrosa e un pensiero, in lingua inglese, vista l’internazionalità della manifestazione.
La Donna Polacca”, divenne quindi “The Fusion”, mix di materia, colori e parole,  ma il volto sofferto del personaggio fu ben sottolineato da un pugno di frasi ripetitive.
Non vinse alcun premio “La Donna Fusa”, ma la sola immagine saprà farmi ritornare alla mente, per sempre, miriadi di ricordi… sarà sufficiente guardare intensamente la fotografia!

This is a Woman

This is a Woman’s pain

This is a Woman’s pain… inside the glass…


lunedì 17 marzo 2014

Sunset



La fotografie di Cristina Mantisi trasportano in altri mondi…

Sunset

Ho iniziato a camminare con te affianco, tra sabbia e acqua.
Timidamente ti ho posto un quesito:"Sei romantica?"
Cosa sarebbe accaduto se mi avessi risposto di no?
Ti ho preso la mano e ho cercato di fermare il tempo, tra un passo ed uno sguardo.
Ti sei girata inaspettatamente verso di me, appoggiando la testa su di una spalla sconosciuta.
Ho sentito il tuo profumo, e con le dita ho disegnato il tuo viso.
Un brivido mi ha trafitto il corpo e mi ha riportato a ciò che sono stato.
Hai chiuso gli occhi e io ho appoggiato le mie labbra sulla fronte, niente di più... per non rompere l'incantesimo.
Neanche una parola... un minimo di contatto e una sintonia totale.
Ma chi sei per farmi questo?
Le onde suonano, la luna danza, noi camminiamo... camminiamo... camminiamo...
Tra poco tutto questo sarà finito e tu resterai un ricordo...

o un sogno... ma certo, è solo un sogno... è così che tornerai! 

venerdì 14 marzo 2014

Lo specchio di ferragosto





Le fotografie di Cristina Mantisi stimolano la mente... realtà e fantasia si miscelano alla perfezione...






Lo specchio di ferragosto

Poteva essere il giorno che da tempo aspettavamo, finalmente lieti, senza l’ansia che da tempo ci opprime. Avevamo curato ogni dettaglio, tutti insieme, dentro ad un’immagine armoniosa che sembrava sepolta nel passato. Il risultato tangibile era il sorriso spontaneo sui vostri volti, ora davvero rilassati. Cosa serve per essere felici? Una giornata serena all’aria aperta, una famiglia unita, una tavola imbandita, cose semplici per persone non sempre facili. Ma, con un po’ di aiuto, eravamo arrivati alla meta. Ma poi, tra tanti colori vivaci, è spuntato dal nulla uno sfondo cupo, maligno, insidioso; come una morsa che ti stringe senza pietà, seguendoti ovunque, impossibile da allontanare. E quella tavola piena di vita, quello specchio dei nostri desideri, all’improvviso si lacera, anche se in maniera composta. I sorrisi e le occhiate profonde perdono il loro sostegno, così, da un momento all’altro. Grida, dolore, caos, sentimenti rovesciati.
Eppure eravamo tutti felici … un attimo fa!
E’ la vita che cambia, quando meno te lo aspetti; e quando un dono arriva, chissà perché, il  prezzo da pagare è sempre alto.
Avrei voluto, cuccioli miei, che il vostro specchio rimanesse integro ancora per molto, sino alla fine dei miei giorni …



giovedì 13 marzo 2014

Il mio tormento



“Cristina, fammi vedere una tua foto… ho voglia di scrivere!”

Dalla foto di Cristina Mantisi, ancora una volta, ho tratto ispirazione…


Il mio tormento

Ho inventato questa immagine per te.
Ci ho pensato a lungo perché volevo essere efficace, senza aprire bocca, senza ulteriori spiegazioni, solo un simbolo che potesse rappresentare le mie … le nostre contraddizioni.
Forse non sono stato abbastanza bravo o tu … poco incline alla rigorosità di un pensiero profondo … o forse non era il momento giusto.
E’ imperativo ora, un accenno di chiarimento.
Ho disegnato l’’Inferno e poi il Paradiso… o forse ho fatto il contrario, prima il Paradiso e poi l’Inferno.
Il bene e il male in me, in te, in tutti noi.
Quanto dell’uno… quanto dell’altro… chi vincerà alla fine?
Non è una partita, ma una vera guerra, che ci incendia e ci raffredda, ci agita e ci calma, in perenne equilibrio, senza vera soluzione.
Ma, a questo punto sono sicuro che … non sarà sulla tua spalla, amico mio, che appoggerò la mano per proseguire nella mia ricerca, sulla via della verità … in che modo potresti essere d’aiuto?!