Secondo appuntamento dedicato alla presentazione del libro “Il
filo di vetro racconta”, grappoli di aneddoti legati ad una vita di lavoro all’interno
della Vetrotex Italia di Vado ligure.
Tutto quanto accaduto nel primo atto, quello del 18 aprile a Savona,
è fruibile al seguente link:
Ma questa seconda opportunità era doverosa, giacché l’ispiratore
dell’iniziativa, Tullio Fulvio, risiede a Lucca, ed era quindi opportuno
realizzare un momento di incontro “a casa sua”, a Capannori, nel Circolo
Culturale Artemisia, che aveva ospitato nel 2023 una presentazione analoga.
Il giorno scelto è stato sabato 14 settembre.
Anche questa volta si è dimostrata compatta la squadra in
movimento da Savona sino al punto di incontro, una reunion tra ex colleghi, non
solo di carattere “savonese”, anzi, una fetta significativa aveva il marchio “Besana
Brianza”, composta cioè da persone che avevano avuto ruoli trasversali, fondamentali,
con cui è rimasto attivo un collante affettivo oggi depurato della rigidità che
certe differenze di ruolo determinavano un tempo.
Palpabile l’emozione - qualche lacrimuccia è scesa -,
tangibile la voglia di passare qualche ora insieme, per ricordare, per rivivere
momenti toccanti, per coinvolgere anche quella parte di famiglia che ha spesso “subito”
difficoltà lavorative non certo facili da comprendere.
Non farò elenchi di nomi, nei video a seguire e nelle foto sarà
facile ritrovarsi, ma mi piace sottolineare l’atmosfera che si è creata, anche
in questa occasione, tanto che il tempo è volato e si è sforato la durata prevista senza neanche accorgersene.
Il mio sondaggio fatto a posteriori su alcune moglie ha fatto
emergere che, nonostante l’argomento fosse molto specifico, a volte tecnico,
sicuramento basato su episodi chiari solo a chi li ha vissuti, la noia non è
stata una delle componenti presenti, e avere un cospicuo numero di persone attente sino
alla fine dell'evento ha rappresentato un ulteriore piccolo successo.
Tanto per riannodare le fila del contenitore letterario
proposto, evidenzio che il libro non ha trama, non è un romanzo, ma è basato sui ricordi che chi ha voluto, in piena autonomia, ha rilasciato.
Un book che, difficilmente avrà una seconda chance, ma una
porta verso la crescita è rimasta aperta, vale a dire la creazione di un libro
digitale che ha il pregio di presentare tante fotografie (in questi casi
importanti quanto le parti scritte), quelle impossibile da inserire in un
cartaceo, e poi… se qualcuno vorrà aggiungere nuovi racconti, sarà agevole
inserirli.
Il giorno dopo resta un senso di appagamento unito ad un briciolo
di spleen, perché le storie emerse riguardano un passato lontano che però
appare dietro l’angolo.
Trovare il piacere nel condividere momenti così semplici e
genuini - magari giudicati negativamente da occhi esterni - conduce alla
piacevole consapevolezza che eravamo - e siamo - anime virtuose, una bella soddisfazione
quando si arriva a questo punto del percorso!
Ma forse le immagini video renderanno meglio l’idea dell’atmosfera
di giornata.
Massimo Pieretti propone a seguire una sintesi del suo
recente viaggio negli Stati Uniti, un obiettivo di carattere musicale
trasformato, ovviamente, in esperienza di vita.
La sua richiesta è quella di
aggiungere qualche mio pensiero adeguato, ma sono talmente tante le cose viste
e fatte negli USA che condensarle richiederebbe spazio notevole e… non voglio
rubare la scena.
Posso però raccontare di come io
abbia iniziato a sognare quel paese attraverso i film visti nella mia infanzia,
e ricordo lo stupore del mio primo viaggio oltreoceano, nel ’93, quando New
York mi si presentò davanti agli occhi proprio come l’avevo disegnata nella
mente guardando la tv.
Da quel momento sono stati molti i
viaggi verso quel mondo - che appare ideale, almeno per chi è di passaggio -
l’ultima nel 2008, spesso per lavoro, ma ogni volta nasceva l’occasione per vivere
e vedere qualcosa di sensazionale… la casa di Elvis a Memphis, il luogo in cui
uccisero John Kennedy a Dallas, il museo di Andy Warol a Pittsburgh.
Avendo in comune con Pieretti
l’argomento musica scelgo un aneddoto che racconto spesso di questi tempi nel
corso delle presentazioni del mio libro (di cui sono coautore) su Woodstock.
È un sabato di fine ottobre, siamo
nel 1996, e io sono in una cittadina della West Virginia, Buckhannon.
Alcuni colleghi mi raggiungeranno la
domenica ma al momento sono solo, in una sorta di B&B in mezzo alla
foresta, il Dear Park, oasi di pace in mezzo alla natura. I gestori mi
accolgono come fossi uno di famiglia e per un paio di giorni vivrò con loro.
Il venerdì sera il direttore
dell’azienda in cui sono impegnato mi consegna l’auto aziendale, una magnifica
Buick azzurra, ed una piantina per orientare il mio soggiorno nel fine
settimana.
Consulto immediatamente la mappa e
vengo colpito dal nome “Woodstock”, evocativo e importante nella mia formazione
musicale.
Mi metto in viaggio e proseguo per
tre ore verso la meta dei miei sogni.
Una volta sul posto mi giro intorno
ma non vedo segnali che riportano all’evento del ’69… impossibile! Un museo?
Una targa?
Fortunatamente trovo un gruppo di
italiani residenti in loco da sei mesi, napoletani, gestori di una pizzeria
appena aperta. E così mi illuminano… nessun festival, nessun museo… la mia
Woodstock si trova in un luogo ben diverso, a 150 chilometri da New York!
Tanta strada per niente? Beh, fu un
viaggio magnifico, toccando cittadine decentrate, campi da football, benzinai…
insomma, quello che “Happy Days” mi aveva insegnato.
Woodstock, quella vera, mi sta ancora
aspettando!
Ho scritto un libro dove ho raccolto
i miei ricordi usando protagonisti inventati (https://athosenrile.blogspot.com/2019/12/accadde-buckannon-un-racconto-di-athos.html), ma sono al contrario reali i musicisti e i personaggi che Pieretti descrive
ripercorrendo le tappe del suo recente viaggio, impreziosito dalla valenza
professionale condita dall’empatia che nasce spontanea tra persone che, pur di
cultura e lingua differente, parlano il linguaggio universale della Musica con
la M maiuscola.
Leggiamo il suo racconto…
Da Roma a Seattle e ritorno - Diario
di bordo del mio primo tour degli Stati Uniti
Di Massimo Pieretti
Premessa
Circa un anno fa, nell’agosto del 2023, grazie a Mark Preising di Progressive
Rock Central, venivo messo in contatto con il cantautore e polistrumentista di
Seattle Michael Trew, lead vocalist dei Moon Letters.
Con Michael, artista vero e mente illuminata, si è creata sin da subito un’
ottima intesa e unità d’intenti e, infatti, lui si è reso immediatamente
disponibile ad interpretare uno dei miei nuovi brani, l’inno pacifista “I
dreamed of flying”, scritto da me insieme a mia sorella Patrizia e al mio
fido collaboratore Gianluca Del Torto.
Il brano è uscito il 18 maggio scorso come
secondo singolo dal mio nuovo imminente progetto da solista, “The Next Dream”,
e ha ricevuto un discreto riscontro di critica nei vari siti e nelle emittenti
radiofoniche di settore (anche grazie alla partecipazione di importanti ospiti,
tra i quali Amy Breathe alla seconda voce, Ms Lisa Green al violino e Mattias
Olsson degli Anglagard alle percussioni).
In seguito all’uscita di questo
singolo, è proseguita una sempre più fitta collaborazione di carattere
promozionale tra me e Michael e a metà aprile abbiamo iniziato a parlare della
possibilità di organizzare un piccolo tour nel Nord Ovest degli Stati Uniti,
Seattle, Portland e zone limitrofe.
Era da molto tempo che desideravo tornare a visitare l’America e quale migliore
opportunità di questa, insieme ad un artista del posto, per lo più indipendente
e non allineato, proprio come me! Quindi, superate le non poche perplessità
iniziali (la paura di volare su tutte) e concordato ogni cosa nei minimi
particolari con Michael, ho deciso di imbarcarmi in questa nuova incredibile
avventura.
Il periodo scelto è stato quello di
agosto, partenza da Roma il 1° ritorno il 20.
I fatti
Michael si è occupato praticamente di tutto, dall’organizzazione logistica
della mia sistemazione sino all’allestimento e il coordinamento della band con
cui esibirci ma, soprattutto, il reperimento delle varie serate arrivando a
trovare ben sette club disposti ad accogliere noi ed altre band locali, tra cui
i Maiden Moss, uno dei gruppi dell’area di Seattle in cui Michael milita come
bassista e corista.
Appena atterrato sul suolo americano
Michael era lì ad aspettarmi, mi ha accolto come uno di famiglia in casa sua,
uno splendido cottage di campagna nei pressi di Seattle con tanto di scoiattoli
selvatici, jacuzzi nel giardino e studio di registrazione annesso.
L’indomani è iniziata l’avventura, con le prime indimenticabili prove e a
seguire i concerti in giro per il nord ovest degli States, tra gli stati di
Washington e l’Oregon, in una cornice di natura incontaminata di rara bellezza.
Il primo concerto si è svolto il 4 agosto, proprio nella tenuta di Michael, di
fronte a tanti nuovi amici accorsi ad ascoltare la mia musica e quella delle
altre band che si sono esibite dopo di noi: i Flying Caravan e i Wavicle
di Portland e, appunto, i Maiden Moss di Seattle.
La nostra scaletta iniziava sempre con una prima parte in acustico, piano, voce
e flauto traverso, e che prevedeva: Dancing with the moonlit knight dei
Genesis in medley con Spirit of the water dei Camel e Mother of
violence di Peter Gabriel; seguivano Never going to touch the ground
- il nuovo singolo di Michael - e la “nostra” I dream of flying.
A questo punto entravano in scena due componenti dei Maiden Moss, Jose Simonet
alla chitarra e Kai Strandskov alla batteria, e con Michael in veste di
bassista/cantante venivano eseguite nell’ordine: il mio ultimo singolo Creatures
of the night part 1 e tre brani dal mio disco d’esordio, A new beginningOh Father, In November e Growing old. Concludeva
il set Vassagonia, un brano di Michael dal suo primo album da solista.
Il minitour ci ha poi visti protagonisti nelle seguenti date:
-4 agosto, Lake Forest Park, Seattle, WA;
-6 agosto Atlantis Lounge, Portland, OR;
-8 agosto Conway Muse, Conway, WA;
-10 agosto Coast Fork Brewing, Cottage Grove, OR;
-13 agosto Rhythm’s Coffee, Olympia, WA.
La data di Portland è stata una delle più emozionanti in virtù della
partecipazione del mio grande amico e collaboratore Billy Allen al basso.
Terminato il tour e salutato i miei nuovi amici, mi sono trasferito dalla casa
di Michael in un albergo del centro di Seattle, a due passi dall’oceano, per
vivere da turista gli ultimi giorni del mio soggiorno in terra americana.
In conclusione, posso dire di aver
vissuto fino in fondo e goduto pienamente ogni singolo istante della mia incredibile
“avventura americana”. Ogni serata è stata, a suo modo, un evento unico e speciale
per me e difficilmente dimenticherò questa incredibile esperienza che porterò
per sempre con me.
Uno spaccato sulle domande della
contemporaneità e del passato
Sfogliando “A che punto è la
notte” non è immediata la comprensione di quello che si sta per
andare a leggere.
Si capisce che non si tratta di un romanzo, ma la divisione
in capitoli e la varietà di argomenti trattati lo rendono un prodotto a metà
tra un insieme di saggi e un compendio accademico, che potrebbe essere
assegnato in un corso monografico all’università o consigliato come lettura da
professori di liceo ad alunni particolarmente curiosi.
Avvicinandosi con più attenzione al volume, si apprende che
in effetti si tratta di una raccolta di 10 saggi pubblicati dall’autore nella
rivista “Il Cenacolo” nel 2023, a scopo appunto divulgativo. L’audience a cui
lo scrittore, giornalista e ricercatore si rivolge è varia e spazia per età e
formazione, condizione che lo porta a cercare di unire nei modi – così come nei
temi – l’inclusività all’interesse e alla professionalità.
Si ramificano così attraverso i saggi alcune domande di
interesse e cultura generale, alternandosi con quesiti esistenziali su alcune
delle contraddizioni e degli aspetti più o meno evidenti della società, della
cultura e della religione.
In un valzer che unisce cultura pop, scienza, politica e
spiritualità, Claudio Sottocornolasfida i lettori a interrogarsi sui perché
dell’umanità, fornendo un’analisi critica e oculata delle tematiche trattate
sotto diversi punti di vista, tutti atti a stimolare il dialogo, l’ulteriore
ricerca e la curiosità. Quali sono le forme narrative adatte per la nostra
nuova società? Gli animali possono ancora essere considerati solo una fonte
proteica da inserire nel nostro piatto? Esistono forme di vita intelligenti,
oltre a noi e se sì, come la scienza trova un compromesso con la religione?
Come i gender studies possono aprirci gli occhi sul mondo contemporaneo?
L’autore prova a dare una risposta a tutti questi
interrogativi servendosi di diverse fonti e usandole in maniera puntuale per
creare una trama narrativa ricca e coinvolgente, permettendo a ciascuno di
aggrapparsi alle realtà meglio conosciute e avvicinarsi in punta di piedi alle
altre, accogliendole o scontrandosi, in un cerchio che si apre e si chiude
armonicamente senza mai risultare perentorio o saccente. Le domande vengono
affrontate analiticamente ma la risposta non risulta chiara e univoca,
permettendo a ciascuno la riflessione e la creazione interiore di una propria
versione, di una propria verità, permettendo però ai lettori di avere gli
strumenti per andare nella giusta direzione.
In un’azione che ripercorre l’attività ermeneutica dei grandi
filosofi del passato, Sottocornola cerca di unire diverse voci e di dedicare a
tutte lo spazio necessario per farle vibrare, permettendo al fil rouge
dell’eterna attesa, che pure viene subito dichiarato dal titolo biblico, di
agire indisturbato in sottofondo.
“A che punto è la notte” ci proietta in un buio metafisico,
un continuum notturno dal quale sembra difficile uscire ma non impossibile se
le tenebre vengono scalfite con la giusta luce, quella della conoscenza e
soprattutto della ricerca a cui si vuole dare una risposta.
L'AUTORE
Claudio Sottocornola (Bergamo, 1959) si è laureato
all’Università Cattolica di Milano con una tesi in Storia della teologia. Già
ordinario di Filosofia e Storia nei licei, è stato anche docente di IRC,
Materie letterarie, Scienze dell’educazione e Storia della canzone e dello
spettacolo alla Terza Università di Bergamo. Iscritto all’Ordine dei
giornalisti dal 1991, ha collaborato con diverse testate, radio e tv.
Come filosofo si caratterizza per una forte attenzione alla
categoria di interpretazione, alla cui luce indaga il mondo contemporaneo, ed
ha spesso utilizzato musica, poesia e immagini per parlare a un pubblico
trasversale, nelle scuole, nei teatri e nei più svariati luoghi del quotidiano.
È autore di numerose pubblicazioni, che coinvolgono tre aree
tematiche prevalenti: l’autobiografia intellettuale, la cultura popular
contemporanea, l’attuale crisi del sacro in Occidente e la sua possibile
rimodulazione teologico-filosofica.
Fra le opere più recenti, Saggi Pop (Marna, 2018), Parole
buone (Marna/Velar, 2020), Occhio di bue (Marna, 2021), Tra cielo e terra
(Centro Eucaristico, 2023), Così vicino, così lontano (Velar, 2023).
Seguo Sarah Cogni dal
2012, anno, anzi, estate, in cui scoprii la sua passione per la scrittura, con
un focus particolare sui romanzi storici e su eventi ambientati in un passato
da lei indagato nei dettagli, trasformati poi in elementi utili alla sua
narrativa piacevole e intelligente.
In rete è possibile reperire facilmente la sua biografia e il
frutto del suo impegno, nonché le scelte di vita che hanno portato lei e la sua
famiglia ad una vita defilata in quel di Frabosa Soprana, alla ricerca di una
qualità esistenziale che si trova più facilmente in un ambiente bucolico, che
credo sia poi fonte di ispirazione e concentrazione, tessere necessarie all’interno
del puzzle creativo.
Nel mese di maggio è uscito “Anna
Lobont”, Morellini Editore, un libro che ho divorato e il
motivo, credo, scaturirà nelle prossime righe.
La lettura suscita diversi sentimenti, tocca il cuore della
persona sensibile e riesce a coinvolgere, ad eliminare il distacco tra finzione
e realtà, permettendo al lettore di diventare parte del contenitore creato dall’autrice.
Immagino che Cogni non tratti fatti di cui è stata testimone
più o meno diretta, ma storie simili, con miglior o peggior epilogo, dominano
il mondo, quello attuale e quello più antico.
Al centro del romanzo troviamo Anna, una bambina che i casi
della vita portano lontano dal suo focolare - una madre che viene a mancare e
un padre che decide di affrontare il futuro affidando le sue due figlie - e per
questo in continuo equilibrio tra la comunità e famiglie atte alla custodia,
spesso inadeguate. L’iter narrativo parte dai cinque anni di Anna - due della
sorella Diana - e si conclude con i sedici anni della protagonista, momento in
cui si apre una luminosa finestra in cui può entrare la luce della speranza,
con la possibilità che la vita possa proporre, da quel momento in poi, un
percorso sereno.
Situazioni drammatiche succedute da momenti di apparente
calma, incomprensioni e delusioni per una bambina che affronta il momento
della crescita in assenza dell’affetto richiesto, necessario soprattutto in
quella fase di vita.
Nasce così la figura di Anna, scontrosa al punto giusto,
diffidente, scostante, ribelle, spesso muta, in un caleidoscopio di disagio e resilienza
in attesa, tra l’altro, del momento tradizionalmente più complicato, quello
dell’adolescenza.
La musica, soprattutto quella dei Queen, diventa compagna di
viaggio in un’era riconducibile agli anni Ottanta, tra “Happy Days” e “Portobello”,
quando la lira era ancora di moda.
Ma qualcosa accadrà, fatti inaspettati, quasi da “noire”,
mentre Anna, e di conseguenza Diana, impareranno una lezione che, con cautela,
proveranno a mettere in atto, quel concetto di “dare una seconda chance”
difficile da far digerire quando si è agli esordi del percorso di vita, ma
avere la possibilità di ricostituire una famiglia, forse, vale qualche azzardo,
un rischio da correre mentre ci si accorge che sentimenti come amicizia, amore
e rispetto, possono guarire anche chi alberga nella propria mente i pensieri
più oscuri.
Come accennato, ho letto con frenesia le vicende di Anna
Lobont e di chi la circonda, apprezzando totalmente la scrittura scorrevole di
Sarah Cogni, pronta a cogliere particolari che arricchiscono un racconto che
potrebbe costituire la trama di un film.
Consigliatissimo!
Mi disse un giorno Sarah, quando uscì il suo primo libro: “La
mia passione per la scrittura nasce parecchi anni fa quando, ragazzina delle
superiori, mi dilettavo a scrivere piccole storie o romanzetti stile
“Teenager”, che, riletti ora, mi fanno sorridere...”.
Beh, di strada ne è stata fatta!
Sarah Cogni è nata a Genova, dal 2018 vive con la famiglia a
Frabosa Soprana. Insegnante di Scuola dell’Infanzia dal 1996, nel 2012 pubblica
il suo primo romanzo storico, Il coraggio di Angela, cui nel 2013 fa
seguito il secondo e ultimo capitolo di questa saga familiare, Il sentiero
di Emma. Nel 2014 viene pubblicata la raccolta di racconti Magie di un
Natale passato. È poi la volta del romanzo storico La signora dei
gabbiani, nel 2016, e de La finestra sul ciliegio, nel 2018; nel
2020 viene pubblicato il breve romanzo storico Quando saremo liberi
(Amazon kdp) e nel 2021 La bottega delle buone cose (Araba Fenice
Edizioni).
Un incontro casuale in una libreria, savonese, mi ha condotto
sulla strada di una scrittrice, genovese, che proponeva l’ultimo risultato
della sua passione attraverso una delle tante pubblicizzazioni possibili, il “firmacopie”.
In realtà il primo contatto è avvenuto con mia moglie, mentre
io girovagavo tra i book nel reparto “narrativa musicale” alla ricerca, vana,
di qualcosa di cui sono autore.
Dopo una breve conoscenza - e la scoperta di amicizie comuni
- arriva l’acquisto, sulla fiducia, dovuta anche all’effetto “induzione”,
ovvero… se conosce Sarah Cogni e ne condivide sentieri e idee, sarà sicuramente
brava!
Lei è Paola Zagarella,
e da quanto si evince dalle note ufficiali esordisce con una pubblicazione del 2020
(“Storie di una donna di oggi”), per poi proseguire l’attività sino ad
arrivare all’oggi, rappresentato dal nuovo libro “Villa Ponente”.
Mi allargo e immagino scenari, magari sbagliando, ma ci
provo.
Paola mi appare membro di un club nutritissimo, quello di chi
trova forza, coraggio, magari solo l’occasione, di realizzare nel corso della
maturità ciò avrebbe potuto essere il percorso della vita.
Accade in tutti i settori, dalla musica alla pittura, in ogni
rappresentazione dell’arte e della creatività, e basterà lasciar scorrere poche
pagine del book per catturare le grandi qualità dell’autrice.
Sono abituato al commento di situazioni musicali e oggi
invado un campo che non mi appartiene, e quindi il mio pensiero è quello del
comune lettore, che sente il bisogno di dire la sua alla fine di una lettura gratificante.
L’ambientazione in cui si snodano le vicende della famiglia
Ponente mi è nota, un paese decentrato rispetto alla città, come ce ne sono
tanti in Liguria, luogo perfetto per la narrazione di una saga familiare che si
concentra sulla vita e sulle azioni di una famiglia, seguendone le
vicissitudini di generazione in generazione e raccontando il modo in cui i suoi
membri sono legati gli uni agli altri da scelte, tradizioni e destini personali.
In uno spazio temporale tutto sommato contenuto si dipanano
le vite di un nucleo di anime benestanti, invidiate, chiacchierate, giudicate,
osservate senza neanche troppa discrezione.
Una stirpe che nasce dall’intuito e dalle capacità di una
persona, il capostipite da cui si diramano le naturali derivazioni, il
generatore di nobiltà e ricchezza, il giovin Carlo, da cui tutto nasce e
prolifica, attraverso l’opera degli eredi.
Un’azienda che funziona, una villa vicino al mare, un piacere
nel rimarcare le diversità di ceto e di possibilità.
All’interno del nucleo famigliare si snodano vicende tipiche
del patriarcato, ma il focus è rappresentato dai tanti aspetti relazionali, uno
su tutti il rapporto tra le due sorelle Carla e Aurelia, lontane anni luce per
quanto riguarda la visione del mondo, ma legate da qualcosa di profondo che emerge
con lo scorrere delle pagine.
Ma se il rapporto tra sorelle riporta a differenze naturali - spesso incomprensibili - tra persone coeve, quello esistente tra figlie e genitore è altrettanto
complesso, ed evidenzia egoismi e pretese che, almeno all’apparenza, nulla
hanno a che fare con l’amore, e mentre la pellicola scorre e gli anni passano
rapidamente, le vicende presentano una drammaticità coinvolgente, e appare
complicato non trovare connessioni con situazioni vissute personalmente.
Le scelte condizionano il futuro, come nel caso di Carla e
Lia, e quando manca la forza di ribellarsi a ciò che altri hanno stabilito per
noi, quando non è chiaro dove sia il giusto e il meno appropriato, quando una
personalità importante sovrasta chi possiede meno forza morale, la nebbia si fa
spessa, e l’idea che basterà solo aspettare affinché il cielo possa tornare
limpido appare pura utopia.
La progressione temporale che descrive lo scorrere della vita
di Lia induce profonda tristezza nel lettore, che intravede nella protagonista
principale l’ovvia infelicità unita all’incapacità reattiva esasperata,
mentre sullo sfondo emergono i tipici profumi della Liguria al passaggio delle
stagioni.
Inaspettato l’epilogo, ma non mi spingo oltre per ovvi
motivi.
Ho letto “Villa Ponente” tutto d’un fiato.
Trovo che il modello narrativo proprio di Paola Zagarella sia
molto efficace, capace di mettere al centro messaggi universali conditi dalla
piacevolezza del racconto e dei dettagli, ed è quindi un libro molto “trasversale”
che consiglio a chiunque possegga un po’ di sensibilità e virtuosismo.
Chiudo con la dedica iniziale dell’autrice, una frase che
faccio mia per sempre…
Dopo tanta attesa è arrivato il momento della presentazione
ufficiale del libro “Il filo di vetro racconta”, un contenitore privo
di un unico autore, ma con tanti protagonisti che hanno deciso, magari con
fatica, di regalare il proprio pensiero.
Prima di delineare i contorni del contesto, mi piace
sottolineare qualcosa che credo sia unico, o almeno inusuale, ovvero la voglia
di unire storie ed epoche differenti, il cui collante, come qualcuno ha sottolineato,
è il concetto di “lavoro”. Oltre trent’anni di vita passata insieme, tra momenti
esaltanti ed altri di dawn, intrecci tra famiglia e attività che emergono dalla
lettura, così come sono evidenziati dalla cospicua partecipazione alla giornata in
oggetto, quella del 28 aprile 2024, giorno in cui ci si è ritrovati alla
Taverna dello Zio Fester.
Due parole sul book, nato da un’idea di Tullio Fulvio,
che dopo aver tracciato la propria testimonianza di vita nell’autobiografia “SCHIZZI
DI MARE ed altri racconti”, uscita lo scorso anno, proponeva l’evoluzione
della parte lavorativa da lui trattata, un’estensione a tutti coloro che
avrebbero avuto la voglia di partecipare, ovviamente ex dipendenti del luogo
comune di lavoro.
Stiamo parlando di una azienda vadese che, partendo dagli
inizi, ha visto la progressione dalla APE, passando per Vitrofil, Vetrotex e
terminando con OCV.
Il periodo più corposo e di rivoluzione tecnologica ha
riguardato la multinazionale Saint Gobain, circa 21 anni di attività.
Ma quante cose accadono in un periodo così lungo!
Il libro è nato così, con la richiesta ai tanti ex colleghi
di lasciarsi andare con i ricordi, mettendoli a disposizione della comunità,
momenti che, quasi sicuramente, avranno un significato solo per chi li ha
vissuti, mentre risulteranno incomprensibili per un lettore esterno, ma a conti
fatti è bello constatare che esiste un legame indissolubile tra persone che si sono
allontanate per mille motivi, ma che hanno mantenuto vivo il ricordo, quello
legato a giornate cariche di eventi,sentimenti sconosciuti agli amanti dello smart working.
Vedere alcune persone presenziare all’evento dopo aver fatto
centinaia di chilometri avvalora la tesi.
Ovviamente non è tutto rose e fiori, come potrebbe apparire,
ma di una giornata come quella del 28 aprile 2024 e della sua motivazione è
bene salvare tutto ed evidenziare solo il positivo.
Un libro senza filo logico, se non una sequenza alfabetica
dei partecipanti, con ogni autore accompagnato da un brano musicale di
riferimento, seguendo il metodo più democratico possibile, ovvero… tutti
possono scrivere, senza limitazioni e costrizioni, né di argomento né di spazio.
E proprio questo, che rappresenta un pregio oggettivo, è al
contempo un limite, giacché non è garantita la rappresentatività aziendale, non
tutti i settori risultano coperti e molte cose interessanti non sono emerse.
Ma la tecnologia viene in nostro soccorso, perché esiste un
formato digitale - a disposizione di chi lo vorrà richiedere -, che è molto
ricco, con tante immagini e la possibilità di ascoltare i brani scelti dagli
scrittori. Sarà quindi possibile aggiungere in qualsiasi momento un nuovo
racconto che potrà colmare i logici vuoti che sono connaturati al libro.
Ci siamo perciò inventati il “Libro Dinamico di
Vetrotex”. Grazie Tony Auteri!
L’unica divisione logica ha riguardato le storie “normali” da
quelle dedicate a persone che non ci sono più. Anche in questo caso nessuna
scelta a tavolino, ma piena libertà di ricordare chi è maggiormente rimasto nel
cuore.
L’evento principe era programmato a Lucca, semplicemente
perché è quella la città in cui vive Tullio Fulvio ed è lì che è nata l’idea.
Si farà, un po’ più avanti, e nell’attesa si è pensato di fare un incontro savonese,
tanto da coinvolgere i protagonisti locali.
Dopo aver individuato il luogo e l’orario, si è passati alla “convocazione”,
ovviamente aperta a famiglie e annessi.
In molti hanno risposto, molti di più sono arrivati.
Volti conosciuti - logicamente invecchiati -, altri nuovi,
per effetto di familiari ed eredi, contenti di ricordare in piena comunione di
intenti.
Ex Operai, ex Impiegati, ex Quadri, ex Dirigenti… TUTTI EX,
nessuna categoria di riferimento.
Tutto è andato per il meglio, in parte improvvisato, con le
parole miscelate a qualche immagine, con qualche intervento che ha suscitato
ilarità mista a nostalgia, ma con un’attenzione costante dei partecipanti per
almeno una ora e mezza - cosa da rimarcare!
Tra i tanti interventi sottolineo quello di Aldo Marenco
- prima infermiere e poi medico - per il semplice fatto che tra i tanti
presenti era l’unico ad aver conosciuto la realtà APE: la sua commozione - come quella
di Ambrogio Merlo o di Giorgio Pinna - la dice lunga sui
sentimenti che legano l’uomo alla propria storia, qualunque essa sia.
Commozione anche sui volti di chi ha perso importanti affetti:
trovare nel libro qualche aneddoto per sempre potrebbe risultare
piacevole.
Alla fine, il rifresco, giusto per alimentare la
socializzazione, qualche parola e la voglia di prolungare al massimo una
giornata che non potrà mai più avere tale seguito, almeno dal punto di vista
della "quantità partecipativa".
E ora il focus delle presentazioni si sposterà a Lucca, per
un bis con altri colleghi: sarà quella l’occasione per utilizzare un paio di
chitarre e accompagnare i racconti, vero Vittorio Viano?
Oltre a Tullio Fulvio, un grande grazie a
Giorgio Pinna e Antonio Auteri.
Nel video a seguire si ripercorrono alcuni momenti della
presentazione… buona visione!
Non è usuale per me scrivere a
proposito di un film visto, perché non ne ho le competenze, ma ho la licenza,
come chiunque altro, di descrivere ciò che il contenuto di una pellicola mi
suscita, e questo mio piccolo commento mi esce spontaneo e so già che andrò a
personalizzare la cosa! Non ho quindi la pretesa di sfornare una recensione ma
mi limito a descrivere quanto provato.
Esiste un antefatto che risale a
domenica scorsa, quando mi trovavo a Milano per la presentazione di un libro. I
miei figli vivono e lavorano nel capoluogo lombardo, e a tavola Elisa ci
racconta dell’esperienza appena vissuta, la visione di quello che comunemente è
chiamato “il film della Cortellesi”. A tutti i presenti è piaciuto, e ciò
mi ha incuriosito, perché in questo periodo tutto mi passa affianco senza che
io me ne accorga, e così ho colto al volo la sollecitazione.
Argomento molto caldo che mette in
risalto il ruolo della donna nella società, e il racconto a tavola si evolve
tendente verso i macro-concetti su cui non si può non essere d’accordo. Mio
figlio ammette che alla fine aveva le lacrime agli occhi e… mi fermo qui. Mi
convinco, ci convinciamo. Risultato, blocchiamo subito un paio di biglietti per
il mercoledì a seguire, ultimo giorno di proiezione savonese.
Ma perché mai dovrei andare a vedere
un film dove il mio cuore tenero, ne sono certo, dovrà soffrire?
Sono abbastanza antico, ma ho ricordi
indelebili di come funzionassero le famiglie a inizio anni ’60, una quindicina
di anni dopo l’ambientazione storica del “film della cortellesi”. Ma non
ho voglia di stare male, e so, mentre mi sto avvicinando alla sala
cinematografica, che prestissimo dovrò fare i conti con la pellicola che
scorrerà davanti ai miei occhi.
A metà strada incontro un amico che
non vedevo da tempo e nel suo saluto finale ci scappa un suo: “hai visto il
film della Cortellesi?”. Ormai non posso fuggire, tra pochi minuti capirò
meglio!
Siccome non provo più alcuna vergogna
nel mostrare i miei sentimenti, posso dire tranquillamente che anche a me sono
scese le lacrimucce. L’ho fatto nella scena finale, ma mi è capitato anche
ascoltando le canzoni di sottofondo, il cui abbinamento tra nuovo e antico mi
ha colpito: non avrei mai creduto che funzionasse così bene! Il top del mio
dolore interiore è arrivato quando una scena particolarmente toccante è stata
colorata da “La sera dei miracoli”, di Lucio Dalla.
E gli altri brani? Eccoli…
Aprite le finestre – Fiorella Bini
Nessuno – MUSICA NUDA di Petra Magoni
& Ferruccio Spinetti
The
little things – Big Gigantic featuring Angela McCluskey
Swinging on the right side – Lorenzo
Maffia e Alessandro La Corte
Tu sei il mio grande amor – Lorenzo
Maffia e Alessandro La Corte (Voce Enrico Rispoli)
Qualche dato oggettivo, partendo dal
titolo su cui sino ad ora ho giocato ma che è ben definito e induce alla
speranza: “C'è ancora
domani”, per un film co-scritto, diretto e interpretato da Paola Cortellesi.
Girato in bianco e nero, riporta ad
una Roma del 1946, appena terminata la guerra, ed è sinteticamente la storia di
Delia, donna che, nel primissimo dopoguerra, si trova a mantenere - facendo tre
lavori, oltre a quelli di casa - una famiglia in cui i due figli maschi seguono
l’esempio paterno - un comportamento basato sulla violenza e disprezzo totale
per lei - e la figlia femmina, rivedendosi nella madre, la accusa di non saper reagire.
Siamo nel mese di maggio, la città è
divisa tra la povertà lasciata dalla Seconda guerra mondiale, le milizie degli
Alleati in giro per le strade e la voglia di cambiamento alimentata dal
referendum istituzionale e dall'elezione dell'Assemblea Costituente che avverrà
nei successivi 2 e 3 giugno (la notazione temporale è funzionale ad un finale
che non racconterò).
Non mi soffermo sui particolari della
narrazione, e ancor meno sulla conclusione, per non rovinare una possibile
futura visione a chi ancora non lo avesse visto, ma… la prendo alla larga.
Col passare dei minuti e lo scorrere
delle immagini sono diverse le situazioni famigliari che evidenziano il
rapporto moglie/marito, e anche laddove il comportamento è basato su una normale
civiltà, il rigido rispetto dei ruoli all’interno della coppia rimane una
costante, perché la donna era condannata alla sottomissione, con una
quotidianità vissuta sotto gli occhi dei figli, che quando erano femmine
apprendevano ciò che la società si aspettava da loro e se erano maschi
captavano il presunto senso di superiorità che doveva farli prevalere
all’interno della vita matrimoniale.
In questo caso abbiamo una violenza,
una vessazione continua e immotivata, se non con la giustificazione dietro alla
quale si nasconde Delia/Cortellesi, la protagonista, che, quando qualcuno le fa
notare la cattiveria del marito afferma: “Eh, ma lui è stressato, ha fatto
due guerre!”.
Una casa indecente, le cui finestre
aperte regalano i piedi dei passanti, qualche topo che vagola sotto il letto,
una camera dove trovano spazio la figlia Marcella e i due figli più piccoli e
difficili da digerire! Un’altra stanza dedicata ad un suocero perennemente a
letto, che rimprovera il figlio perché ha sposato un’estranea e non una cugina
come il suo credo avrebbe suggerito, e che redarguisce la violenza del figlio,
che andrebbe perpetrata non in modo continuo, ma ogni tanto e con grande
impeto, insomma, “le mogli vanno picchiate ogni tanto, ma forte, in modo che
non possano scordare chi comanda in casa!”.
Le vicende si snocciolano con la
tragedia che si sposa alla comicità a cui la Cortellesi non ha voluto
rinunciare, e che va colta nei dettagli nascosti negli anfratti, mentre la
figlia dimostra ostilità verso una madre incapace di ribellarsi. Ho lasciato
per ultimo Ivano/Valerio Mastandrea, attore, anche in questo caso superlativo,
che riesce ad attirare su di sé l’odio dello spettatore, e che contribuisce a
chiarire in modo perfetto il modello di famiglia dell’epoca.
Mi fermo qui per quanto riguarda la
storia per non rischiare il reato di spoileraggio, ma qualche
considerazione personale mi nasce spontanea.
Ciò che Paola Cortellesi descrive
così bene nella sua creazione è una cartolina del lontano passato, perché
esiste una logica evoluzione che ha modificato i rapporti uomo/donna esistenti
un tempo, ma è proprio la quotidianità che ci racconta come il retaggio
culturale antico abbia ancora in pancia delle scorie che non si vogliono
eliminare. Senza entrare nel campo sociologico e antropologico che non
padroneggio, evidenzio che l’unica vera distinzione tra i generi, quella che
attraverso leggi di natura stabilisce una relazione di forza ben definita, è
ancora utilizzata per prevaricare e sopprimere sentimenti e voleri altrui.
Anche nel campo lavorativo ho esperienze dirette di come le opportunità e la
considerazione professionale passino ancora attraverso la valutazione di
genere.
Arriviamo agli attimi finali, da
vivere col cuore che aumenta i battiti, come quando si è in attesa di un evento
aspettato di cui non si intravede il possibile risultato, e… una emozione
unica, e in quel finale, peraltro interpretabile, c’è la speranza di una
famiglia, di una donna, di tutte le donne, che di lì a poco avrebbero visto un
cambiamento epocale della società, e anche della loro condizione personale.
Sono tornato indietro nel tempo, ai
ricordi, frutto di anni di pranzi e cene tra parenti che avevano vissuto in
quello stesso periodo, ma anche io ho potuto constatare con i miei occhi i
comportamenti e le relazioni di genitori e nonni, paragonandoli e notando come
esistesse una totale sudditanza da parte di una donna nata nel 1909 nei
confronti del marito nato nel 1909: i miei cari nonni. Nulla di violento, per
carità, ma la figura di padre padrone ha campeggiato a lungo tra le mura
domestiche.
Questo un mio ricordo scritto anni
fa, messo in prosa e riferito a fine anni ’70, quando ormai l’impeto giovanile
di Luccio e Olga era finito, anche se certi comportamenti rimangono appiccicati
per sempre a chi è intriso di un credo radicato.
Lei era ormai vecchia… beh, in realtà
avrà avuto una sessantina d’anni, ma ai miei occhi era anziana.
Aveva sofferto, per effetto delle
vicissitudini legate alla guerra e per una vita non certo felice, con un marito
padre padrone, che sperperava i tanti soldi disponibili in feste e donne,
mentre lei doveva misurare ogni tipo di spesa.
Lui non era cattivo, ma aveva nel DNA
il distorto ruolo del capo famiglia, quell’immagine che tanto andava di moda
agli inizi dello scorso secolo, atteggiamento difficile da modificare. Lei se
ne andò molto prima di lui.
Ricordo un giorno, un episodio
negativo che la turbò sino a condurla alle lacrime.
Era andata a fare la spesa, e per
qualche strano motivo aveva perso il portafoglio, una misera busta che
conteneva ciò che lui le aveva dato, come cifra quotidiana destinata
all’acquisto del cibo.
Rifece la strada più volte, rientrò
nei negozi disperata, si aggirò nel quartiere, accecata dalla preoccupazione,
più che dalla rabbia. Ma niente, non c’era stato verso. Sarebbe stata sgridata
come una bambina? Lo avrebbe sentito urlare?
Arrivò a casa piangendo e raccontò
tutto... svuotò il sacco e si liberò.
“.. ma sì, vada come vada, non l’ho mica
fatto apposta!”
Lui la guardò e… sdrammatizzò, si
mise a ridere e lei, che si era mantenuta a debita distanza, incredula, diede
dimostrazione di riconoscenza per quella reazione composta e adeguata alla
pochezza dell’evento… fece un piccolo gesto che aveva un grande significato,
anche se lui non poteva capire, come d’altronde accadeva da una vita.
Rimanendo sulla soglia della porta
della cucina, alzò il braccio e, fissandolo negli occhi azzurri, avvicinò alla
bocca il palmo della mano, contrasse le labbra e soffiò con estrema dolcezza.
Il bacio partì, uscì dalla bocca,
rimbalzò sul polso e attraversò la mano, disperdendosi nell’aria.
Lei si convinse di aver centrato
l’obiettivo, e questa fu alla fine la cosa più importante.
Non ho goduto abbastanza la mia
nonna!
I cambiamenti culturali sono lenti,
in qualunque rappresentazione della vita, e si accetta sempre, con entusiasmo
moderato, una progressione, seppur minima, verso il positivo; certo,
perlustrando altre strade, altre culture, altri modi di vivere c’è da
rabbrividire al pensiero degli arretramenti che impediscono alle donne, in
certi paesi, una conduzione di vita decente, giacché il concetto di “parità”
non è certo contemplato!