West Virginia

West Virginia
Buckhannon, West Virginia dicembre 1996

lunedì 27 ottobre 2014

Perfect day



Un piccolo ma sentito omaggio ai Velvet Undergroud, a Lou Reed, a Nico.
Un pò di tempo fa ho scritto un racconto che è rimasto in forma di bozza. Ha molto di autobiografico e c’è molta musica e, bello o brutto che sia, racchiude parte del mio passato ed è quindi assolutamente da preservare.
L’ho fatto leggere a poche persone, ma non ho notato alcun tipo di entusiasmo, della serie… “nessun commento critico per non ferire”. Tutto questo non mi ha incoraggiato, ovviamente, ma mi sono onestamente detto:” se non piace a nessuno vorrà dire che ha poco valore!”. In fondo non sono uno scrittore.
Però ogni tanto lo rileggo (e ogni volta modifico qualcosa) perché è la sintesi di ciò che mi spinge a scrivere quotidianamente: non per gli altri, ma per me, per poter riviver momenti che sono riuscito a fissare per sempre sulla carta. Naturalmente non abbandono mai l'idea di condividere, qualsiasi cosa io scriva.
Un passaggio di questo racconto mi da l’occasione di omaggiare Lou Reed e Nico, personaggi che mi hanno sempre intrigato.

Ryan e Uma sono i protagonisti, fidanzati (e successivamente marito e moglie) che assistono assieme al loro primo concerto, a Pittsbourgh. L'artista è Nico, con cui hanno un incontro ravvicinato in un bar, prima della performance. Non la riconoscono, ma rimangono entrambi ammaliati da ”una donna alta, magrissima, con un viso scarno segnato da rughe profonde, e su di esso si potevano leggere le vicende di una vita vissuta intensamente.”

Non era un caso se nella notte dei tormenti, un ricordo dell’adolescenza era ancora così forte.
Al Crazy Cafè era rimasto senza respiro e ora, a distanza di anni, sentiva l’angoscia crescere, mentre accostava i dolori di Nico, e la morte a cinquantanni anni dopo una vita sempre al limite, ai dolori dell’universo, dolori che in questa notte erano tutti sulle sue spalle.
Alle immagini associò una canzone di Lou Reed che spesso aveva dedicato a Uma, ma che racchiudeva molto più di una dimostrazione d’amore per una donna.
Quel breve e semplice testo era la ricerca della tranquillità e della pace dopo tanta sofferenza e allo stesso tempo l’ammissione delle proprie colpe, e nel senso della velata confessione la canzone assumeva per lui un senso quasi religioso.
Quel tipo di sofferenza apparteneva a tutti, anche a persone “quadrate” come Ryan, e forse era questo che lo turbava e gli impediva di dormire.
La canzone si chiamava “A Perfect Day”, un giorno perfetto.

Proprio una giornata perfetta
bere sangria nel parco
e poi, più tardi, quando fa buio
tornare a casa

Proprio una giornata perfetta
dar da mangiare agli animali nello zoo
e poi, più tardi, anche un film
e poi a casa

Oh, è una giornata così perfetta
sono contento di averla trascorsa con te
Oh, una giornata così perfetta
mi fai venir voglia di restare con te

Proprio una giornata perfetta
i problemi messi da parte
turisti solitari
è così divertente

Proprio una giornata perfetta
mi ha fatto dimenticare me stesso
ho pensato di essere un altro
una persona migliore

Oh, è stata una giornata così perfetta
sono contento di averla trascorsa con te
Raccoglierai ciò che hai seminato

Si rese conto di come certe parole, estrapolate dal contesto e dalla musica che le accompagnava potessero sembrare banali, ma nella sua visione quella canzone rappresentava un mondo di dolore e un mondo di felicità, condizione oggettiva di ogni essere umano.
Col passare degli anni ci sarebbero state molte occasioni per tornare su quel brano, che Uma prese a pretesto per spiegare ciò che per lei significava una canzone.
Avendo perso l’esigenza primitiva di fare selezione musicale in funzione del nome dell’artista, Uma era arrivata a un’unica distinzione, quella tra buona e cattiva musica.
La buona musica era per lei quella che riusciva a darle forti emozioni e non quella riconosciuta in modo universale, secondo canoni stabiliti da altri.
Non era poi un percorso così facile.
Prendendo come esempio “Un giorno perfetto” aveva fatto un’analisi precisa e convincente per Ryan.

-Prendi il testo e leggilo, da solo, immagina di averlo trovato scritto su un pezzo di carta, in casa di un amico, senza sapere a cosa sia legato.
Sembrano parole che potrebbe scrivere chiunque, quasi elementari.
Ora immagina di sentire solo la musica della canzone, il testo non esiste, solo un pianoforte, una batteria molto soft e un arrangiamento apparentemente povero.
Mi sembra un passo avanti notevole, e immagina un vecchio pianista che intrattiene gli ultimi clienti del pianobar … molto, molto triste, ma capace di dare uno scossone che il testo da solo non riesce a fare.
Ora unisci le due cose, il testo e la musica. Non diventa un piccolo capolavoro?
Ma si può avere di meglio!
Cerca di capire cosa c’è dietro a quelle parole, la vita di chi le ha scritte, il contesto.
Tutto cambia prospettiva e tutto assume un significato preciso.
Prova ad andare a letto dopo averla ascoltata in questa modalità e ti troverai quasi in tranche, incapace di prendere sonno, emozionato o addolorato, sicuramente non indifferente-.
Ovviamente Uma non doveva convincere Ryan, ma era come stesse parlando a una platea di studenti, cercando di fornire elementi oggettivi e al contempo provando a spingerli nella direzione per lei migliore.

In questa notte, benedetta o maledetta, Ryan non aveva sentito “A Perfect Day “, eppure non riusciva a dormire.

giovedì 23 ottobre 2014

YES rivisitati da Michael Kuhlmann



Girovagando in lungo e largo su youtube ho scoperto una versione al piano di un capolavoro targato "YES", "Turn of the Century".
La mano è di tal Michael Kuhlmann, artista forse famoso, ma a me sconosciuto.
Mi è piaciuta moltissimo e riproporla nella doppia versione, YES e Kuhlmann, mi da l'occasione per ricordare un gruppo immenso, una canzone senza tempo e oltre ogni etichetta, e dei musicisti impareggiabili.

Mi lascia uno strano sapore il rifacimento di un brano prog per la delizia di un maturo e attento pubblico, in un contesto serioso e classico. Questi artisti, a cavallo tra gli anni 60 e 70, avevano davvero qualcosa in più, a partire dalle idee per terminare col coraggio, passando per uno straordinario talento.

YES-Turn of the Century




Michael Kuhlmann-Turn of the Century




mercoledì 22 ottobre 2014

La strage di Bel Air


Ricordando il quarantennale di Woodstock, ho collegato che in contemporanea (una settimana prima) avvenne la strage di Bel Air.
Ero rimasto molto impressionato, all’epoca, dall’intera storia ma non l’avevo collocata nel giusto periodo, anche perché passarono due anni dal momento della strage alla scoperta della verità.
Le immagini di allora erano piene di dettagli dolorosi e i nomi di “personaggi” come Linda Kasabian, Susan Atkins o Charles «Tex» Watson divennero familiari e stimolarono una curiosità morbosa negli adolescenti dell’epoca.
Tra quegli adolescenti c’ero anche io e ricordo che l’evento fu accostato in qualche modo al mondo hippie , quello che tanto ci affascinava agli albori degli anni 70.
Ovviamente le filosofie di vita erano opposte e la non violenza dei figli dei fiori era anni luce lontana dalla ferocia della Manson’s Family, ma il semplice fatto che quella macabra tribù vivesse in piena comunione, favorì la similitudine.
Vorrei ricordare nei dettagli quei giorni, ma per farlo attendo di leggere il seguente libro di Vincent Bugliosi, l’uomo che scoprì la verità: “Helter Skelter, Storia del caso Charles Manson”.
Nel frattempo pubblico la breve storia trovata in rete.
Ne ho lette molte, con sfumature diverse, ma tutte evidenziano il percorso di vita drammatico che ha portato Charles Manson a diventare una delle menti più “feroci” e assassine di tutti i tempi, e quella che può sembrare una sorta di tentativo di giustificazione, credo sia in realtà la voglia di indagare e capire come si possa arrivare a tanta violenza gratuita, come si riesca ad abusare e infierire sul corpo di una giovane donna prossima alla maternità, come si possa pensare di uccidere ed essere nel giusto.

Uno dei più famosi assassini della storia, lo psicopatico che ha dato adito a una serie innumerevole di leggende e di falsi resoconti sulla sua vita: Charles Manson è il prodotto malato di quello che furono gli sconvolgenti e irrefrenabili anni '60, il frutto marcio di una falsa idea di libertà partorito dalla frustrazione di non essere nessuno, mentre molti "nessuno" diventavano qualcuno.
Seguace dei Beatles e dei Rolling Stones, voleva diventare famoso: non riuscendoci con la musica, nel suo delirio ha scelto un'altra e ben più trasgressiva strada.
Nato il 12 novembre 1934 a Cincinnati, Ohio, l'infanzia del futuro mostro è stata assai squallida e segnata da continui abbandoni da parte della giovane madre, una prostituta alcolizzata, finita poi in carcere con lo zio per rapina. Il giovane Charles Manson imbocca ben presto la carriera del criminale, tanto che all'età di trent'anni, dopo una vita passata fra vari riformatori, ha già un curriculum da record, completo di contraffazioni, violazioni di libertà vigilata, furti d'auto, tentate fughe dalle carceri, aggressioni, stupri di donne e uomini.
Nel 1967, rilasciato definitivamente dopo anni di violentissime detenzioni in galera, in cui conobbe stupri ed abusi di ogni genere, sia fatti che subiti, comincia a frequentare la zona di Haight-Sansbury a San Francisco. Nel pieno della cultura hippy fonda una comune, poi ribattezzata in seguito con il nome di "Famiglia Manson". Nel suo periodo di punta, la Famiglia contava qualcosa come cinquanta membri, tutti naturalmente soggiogati dal carisma violento e fanatico di Charles. Il gruppo presto si trasferisce in un ranch nella valle di Simi dove si dedica alle attività più varie, tra la musica dei Beatles (Manson era convinto di essere il quinto Beatle mancato), il consumo di LSD e altre droghe allucinogene. Essendo sostanzialmente un gruppo di sbandati (Manson aveva raccolto intorno a sé tutte persone con gravi difficoltà di inserimento sociale o giovani dal passato difficile), la Famiglia si dedicava inoltre ai furti e agli scassi. Charles Manson intanto profetizza la cultura satanica e l'olocausto razziale che avrebbe dovuto portare la razza bianca al dominio totale su quella nera. E' in questo periodo che si consumano i primi bagni di sangue.
La notte del 9 agosto 1969 avviene il primo massacro. Un gruppo di quattro dei ragazzi di Manson irrompe nella villa dei coniugi Polanski a "Cielo Drive". Qui ha luogo la tristemente nota carneficina che vede coinvolta, come povera vittima sacrificale, anche l'attrice Sharon Tate: la compagna del regista all'ottavo mese di gravidanza, viene accoltellata ed uccisa. Con lei vengono trucidate altre cinque persone, tutti amici di Polanski o semplici conoscenti. Roman Polanski si salva per puro caso perchè assente per impegni di lavoro. La strage non risparmia comunque il guardiano della villa e lo sfortunato giovane cugino capitato sul luogo del delitto. Il giorno dopo stessa sorte tocca ai coniugi La Bianca, anch'essi assassinati nella loro casa con più di quaranta coltellate nel petto. E l'eccidio continua con l'uccisione di Gary Hinman, un insegnante di musica che precedentemente aveva ospitato Manson e la famiglia. Sono le scritte "morte ai maiali" e "Helter skelter" (nota canzone dei Beatles il cui significato simboleggiava la fine del mondo) tracciate con il sangue delle vittime sulle pareti della casa a condurre l'avvocato Vincent T. Bugliosi sulla pista di Charles Manson.
E' l'avvocato stesso a portare avanti la maggior parte delle indagini che durano oltre due anni. Convinto che a tirare i fili di questi macabri delitti vi sia proprio Manson, Bugliosi visita più volte il ranch "comune" dove intervista i ragazzi per cercare di capire come dei giovani innocenti si siano potuti trasformare in assassini spietati.
A poco a poco il puzzle viene assemblato: gli omicidi Tate-La Bianca-Hinman, e gli altri fino a quel momento rimasti estranei alle piste di indagine seguite dall'avvocato, sono tutti collegati. Gli autori sono proprio questi ragazzi appena ventenni che agiscono sotto i poteri allucinogeni delle droghe e, soprattutto, sotto l'influsso di Charles Manson. Arrivano anche le confessioni che inchiodano il loro mandante supremo. E' in particolare Linda Kasabian, un'adepta della Famiglia, la quale aveva fatto da palo all'omicidio di Sharon Tate, a divenire il più importante testimone d'accusa.
Nel giugno del 1970 comincia il processo contro Manson, poi ricordato come il più lungo mai svolto negli Stati Uniti, con oltre nove mesi di dibattimento. Il glaciale Manson, nella sua follia, confessa tutto e anche di più. Rivela che fra gli obiettivi della Famiglia, improntati alla sua filosofia malata, vi era quello di eliminare quanti più personaggi famosi possibile, fra cui emergono, tra i primi, i nome di Liz Taylor, Frank Sinatra, Richard Burton, Steve McQueen e Tom Jones.
Il 29 marzo 1971 Charles Manson e i suoi compagni di strage vengono condannati alla pena di morte. Nel 1972 lo stato della California abolisce la pena capitale e la condanna viene trasformata in carcere a vita. Tutt'oggi questo inquietante criminale è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza.

Nell'immaginario collettivo è divenuto la rappresentazione stessa del male, ma lui ha continuato imperterrito a inoltrare richieste per la libertà vigilata, sino al 19 novembre del 1917, anno della sua morte.





martedì 21 ottobre 2014

Guillermo Fierens e i suoi alunni


Successe un po’ di anni fa…

Quando un lustro fa mia figlia si iscrisse alla prima media, fui molto felice di sapere che l’istituto a pochi passa da casa mia aveva una peculiarità, quella di essere dotato di una sezione di studio musicale, con orari supplementari e quattro strumenti possibili: chitarra, violino, pianoforte e flauto traverso. Per accedere ai corsi era obbligatorio un test attitudinale da sostenere mesi prima, necessario in funzione della logica del “numero chiuso”. Il motivo per cui ero soddisfatto è facile da intuire.
Mia figlia iniziò a suonare la chitarra. Il professore, insegnante di chitarra classica alle Scuole medie Guidobono, era Guillermo Fierens. Un insegnante come tanti? In rete ho trovato e “rubato” la seguente biografia:

Guillermo Fierens, considerato e celebrato come uno dei principali chitarristi al mondo, è nato in Argentina a Lomas de Zamora, ma dagli anni Ottanta è cittadino italiano.
Ha iniziato gli studi musicali in Argentina e si è diplomato al conservatorio “M. de Falla” di Buenos Aires. Ottenuta una borsa di studio, si è recato a Santiago de Compostela per seguire i corsi di perfezionamento del Maestro Andrès Segovia, proseguiti poi presso la sede di Berkeley dell’Università della California. Questa sua associazione con il leggendario Maestro fu di grande importanza negli anni che lo portarono al suo debutto professionale in Spagna. Il Maestro Segovia ha detto di lui: ”La sua tecnica è meravigliosa. Esegue i più intricati passaggi senza sciupare una nota, ma possiede qualcosa di assai più importante della sola tecnica: suona con l’anima”. Ha ottenuto tre Primi Premi Internazionali: al Concorso Internazionale di Caracas nel 1967, nel 1971 al Concorso Internazionale “Città di Alessandria” e al concorso dedicato al Compositore brasiliano Heitor Villa-Lobos a Rio de Janero, dove la vedova del Compositore gli ha consegnato la medaglia d’oro, diventando in quel momento l’unico chitarrista ad aver vinto tre Concorsi Internazionali. Da allora la sua attività concertistica ha toccato tutto il mondo.
Ha suonato nella Tonhalle di Zurigo, nel Palais de Beaux Arts di Bruxelles e a Londra, Rotterdam, Milano, Barcellona, Amburgo, Oslo, Helsinki, ecc.
Ha realizzato tournées di concerti negli Stati Uniti, Canada e Australia.
Guillermo Fierens è molto conosciuto in Inghilterra dove è stato invitato dai principali festivals e ha suonato come solista con la “London Symphony”, la “Royal Philarmonic”, la “Hallè” e la “English Chamber Orchestra”.
E’ stato inviato dall’Orchestra Nazionale Spagnola per eseguire il “Concerto de Aranjuez” in una tournée in Spagna sotto la guida del direttore Garcia Asensio.
Per diversi anni presso la Grand Valley State University in Michigan è stato “Artist in residence”, cioè un ricercatore in campo musicale, a cui veniva concessa la libertà di continuare la carriera di concertista. Ha inciso per la casa discografica ASV di Londra.
Negli U.S.A. è rimasto fino al 1981.
Dopo un suo concerto a Milano nel 1989 il Corriere della Sera lo ha salutato come “erede del grande Segovia.
Oggi risiede a Cairo Montenotte con la famiglia ed è insegnante di chitarra.

Dopo queste note, è intuibile come non possa esistere miglior insegnante per un alunno in erba, o già collaudato. Aggiungerei alcune caratteristiche non proprio trascurabili.
Chiunque avesse tali competenze e tali "mostrine sulle spalle", si sentirebbe autorizzato a salire su un gradino più alto, portato a evidenziare i propri meriti e il proprio valore.
Per quello che ho visto da spettatore in questi anni, e per come mi viene descritto, Guillermo Fierens è un campione di umiltà e preferisce il backstage alle luci del palco, proponendosi sempre in punta di piedi. Questione di carattere.
Ora che mia figlia non è più alle medie, e che Fierens non è più alle Guidobono, le occasioni per gli incontri musicali non sono terminate.
Per tutto l'anno in corso, i chitarristi ex alunni, con l'aggiunta di una violinista, si sono "allenati" col loro professore, trovando una diversa collocazione logistica(grazie a Don Camillo, parroco della chiesa S. Paolo)."

Alcuni giorni fa si sono esibiti in un saggio conclusivo che oltre a mettere in evidenza ragazzi volenterosi di rimanere aggrappati al loro strumento e al miglior insegnante possibile, ha permesso di vedere all'opera il grande Guillermo.

Che fortuna per i nostri ragazzi!







venerdì 17 ottobre 2014

I ricordi di Cristina Mantisi





Un pò di tempo fa Cristina Mantisi mi ha regalato il suo pensiero e qualche foto.

Ho visto e ciò che ho visto non ha fatto che accentuare questo senso di arrendevole impotenza di fronte a ciò che "succede" al di fuori di ogni nostra volontà.
Vorrei aggiungere che ho sempre percepito la nave come una cosa viva, la sento addirittura respirare... forse perché da bambina sono tornata in Liguria dal Canada. Quel viaggio mi ha lasciato nel cuore forti emozioni, la partenza, il distacco dal molo, lo strapparsi di stelle filanti (ben effimero legame col passato che stava per diventare un passato finito)...
Ogni volta che vedo partire una nave mille ricordi affiorano nella mia mente.
Vedere una così bella nave affondare è come vedere una grossa creatura del mare che muore.

Scusate questo mio trasporto forse fin troppo sentimentale, ma Athos ha contribuito a scatenarlo e a far venir fuori le parole che stavano sonnecchiando dentro...

Posso aggiungere alle immagini della fine un ricordo di vita? Tre foto di bei tempi... che risalgono al 2011.

Ho intitolato il trio "L'ultimo saluto"








venerdì 22 agosto 2014

“Ufficio di scollocamento”, di Simone Perotti e Paolo Ermani.



Avevo la ferma intenzione di recensire - parola grossa! - “Ufficio di scollocamento”, di Simone Perotti e Paolo Ermani.
Mentre Simone scriveva una dedica sul libro appena acquistato, gli anticipavo le mie intenzioni: “Lo leggo e butto giù qualcosa”… una promessa? Una minaccia? Sarebbe certamente più utile se le parole uscissero copiose e obiettive, e venissero pubblicate dal quel famoso giornalista da lui citato, censore volontario per “esigenze politiche”. Ma il mosaico si completa con tanti minuscoli frammenti, e alla fine anche il mio pensiero potrà forse rappresentare un piccolo contributo alla diffusione di questo saggio atipico.
Purtroppo sono esageratamente coinvolto da situazioni personali, e risulterà alla fine impossibile il restare entro i confini che normalmente si dovrebbero rispettare in queste occasioni.
Parto quindi dalla genesi di questa mia conoscenza per esaltare il positivo derivante dalla tecnologia avanzata, fatto doveroso perché senza di essa non avrei probabilmente mai conosciuto “Ufficio di scollocamento” e uno dei suoi autori.
E’ un mercoledì sera quando nella posta elettronica trovo l'usuale comunicazione della Libreria Ubik, foriera di novità e di futuri incontri.
Il titolo del book mi colpisce immediatamente e le note di accompagnamento sono talmente efficaci che d’istinto cerco “Simone Perotti” su facebook e lo trovo. Scrivo d’istinto un piccolo messaggio e dopo un’ora trovo una risposta, e mi convinco che il giorno dopo, alle 18, devo ascoltare cosa lui ha da dire, nella mia città, Savona.
Arrivo con un po’ di anticipo e lo vedo girare nelle vie circostanti, lo chiamo e pare si ricordi di me; qualche parola e prendiamo posto nella saletta dove il libro verrà presentato.
Prima di proseguire nel racconto della giornata devo evidenziare che mai mi era capitato di trovarmi nella situazione in cui l’esposizione e l’interazione avessero una tendenza verso l’infinito; se l’incontro fosse stato programmato in un’ora più favorevole - ma le 18 sono perfette per la maggior parte dei casi- tre ore non sarebbero bastate, tenuto conto che una l’avrei portata via io. Vedremo qualche dettaglio in più a seguire.
Scollocarsi” non è un gioco di parole, ma è esattamente il contrario di ”collocarsi”, e sta a significare, in soldoni, smettere di lavorare e cominciare a vivere. Detto così suona come utopistico, anarchico, superficiale, riassunto populistico di un comune malessere che trova facili consensi.
E per “scollocarsi” nascono reali “uffici di scollocamento”, sparsi in tutta Italia, e gestiti con professionalità, con l’intento di aiutare a cambiare vita.
Non posso proseguire senza sottolineare che non ho avvertito nessuna posizione politica specifica. E’ questo un libro politico, e far riflettere sulla necessità di lasciare il mondo del lavoro significa assolutamente fare politica, ma non saprei attribuire a Perotti nessuno dei colori che siamo soliti dare, seguendo categorie ben conosciute  e rassicuranti.
Aggrapparsi alla situazione sociale attuale, immaginando di essere  buoni manager, e ipotizzando quindi la realtà, fatta di disastrosi scenari futuri, porta con facilità a condividere il pensiero contenuto nel libro.
La nostra società non funziona… non funziona più, e qualcuno avrebbe dovuto spingerci a pensare per tempo che non si può crescere all’infinito e che il momento della saturazione non era cosa che riguardava altri. Sarebbe lungo, ma facile, fare ora un elenco delle cose che abbiamo assorbito, accumulato, e ritenuto indispensabili per uniformarci, incoscienti e speranzosi che la cosa potesse durare per molto, almeno sino alla pensione, momento tutt’altro che destinato al riposo, ma, al contrario, l’inizio della vera vita.
E come è noto tutto quanto ci è ora negato da chi ha deciso che l’asticella si è alzata e che vivremo molto più a lungo. Beh… riutilizzo la parola “manager”, perché in uno dei miei innumerevoli corsi sulla comunicazione mi è stato spiegato che “… il MANAGER ha la capacità di prevedere scenari futuri e quella di pianificare le azioni atte a guidare i cambiamenti”, e quindi i  grandi manager del momento sono al lavoro secondo l’assioma appena citato, e ci aspetta un roseo percorso da settantenni.
Non credo che il problema sia ciò che sta accadendo ora, o ciò che è avvenuto venti… trenta anni fa, con differenti “conduttori” al potere. Mi sono guardato attorno, ho posato un occhio sull’azienda in cui lavoro, assumendola come significativa e rappresentativa di qualcosa di più generale, e  ho pensato alle persone che la popolano, tutti, senza esclusione alcuna: operai, impiegati, quadri, dirigenti… nessuno, nessuno, nessuno, ha scelto il mestiere che esercita… tutto è stato casuale, fortuito, necessario per la sopravvivenza, per la formazione di quel microcosmo familiare che potesse ricreare il modello sociale che altri hanno disegnato per noi, e che alla fine abbiamo ritenuto fosse l’unico possibile, e degno della medaglia dopo i venticinque anni di lavoro, per non parlare dell’orologio d’oro dei trentacinque, a un passo dalla pensione. In realtà è un mondo di infelici, dove far passare la giornata è un enorme peso psicologico, oltre che, in molti casi, fisico. Un mondo di lavativi e fannulloni? Ingrati? Superficiali?
Simone Perotti (non ho idea dell’età di Paolo Ermani) ha capito precocemente ciò che prima o poi tutti riescono a capire, con il raggiungimento di una certa età, ma credo che certi sentimenti siano più forti in chi ha avuto buone opportunità di carriera, in chi godeva nel raccontare le sue dodici ore di lavoro medie, in chi si crogiolava nel raccontare che aveva dovuto trascurare la famiglia e i propri piaceri, in chi ha avuto una sana ambizione che magari lo ha condotto ad immedesimarsi con chi era la causa del suo enorme impegno, arrivando persino ad acquistare l’auto privata uguale, per colore e tipologia, a quella aziendale!
E arriva il giorno della verità, e tutto crolla, perché si realizza che il tempo a disposizione è limitatissimo e non si può più perdere un attimo e occorre pensare a vivere realmente, a dedicarsi a se stessi e ai propri cari, a osservare ciò che ci circonda, ad apprezzare le piccole cose, a imparare tutto ciò che prima non interessava o si pensava non potesse interessare, ad oziare.
I manager- sempre loro- che ci spiegano che avremo tempo per tutto questo perché vivremo a lungo, sono purtroppo poco credibili, e tutti i buoni proposti appena elencati riempiranno il libro dei sogni.
Ma il cambiare vita, secondo gli autori, diventerà una necessità, perché i presupposti su cui si è basato sino ad oggi il nostro benessere sono destinati a cadere.
Il libro di cui sto scrivendo propone cose concrete, e la nascita dei primi “uffici” ne è la prova.
La scelta di rinunciare a quella che è considerata tradizionalmente “la sicurezza di un futuro sereno”, è quella fatta da Perotti, che dopo venti anni di lavoro nel settore della comunicazione, con stipendio invidiabile e prospettive luminose -secondo canoni conosciuti- ha deciso di vivere in modo alternativo.
Casa decentrata e posta a contatto con la natura, autoproduzione di ciò che necessita (energia, cibo e prodotti della terra), antica pratica dello scambio, lavoro stagionale nel campo da lui conosciuto, quello della navigazione, riduzione massima di esigenze e costi, fabbisogno mensile ridotto al minimo consentito.
Gli uffici di “scollocamento” hanno quindi il compito di guidare il cambiamento e formare e supportare chi decide almeno di provare, seguendo il proprio istinto.
Il fenomeno non è certo nuovo ed esistono comunità fuori dai nostri confini che sono decisamente collaudate, così come non mancano gli esempi di chi ha estremizzato il concetto ed ha rinunciato completamente al denaro, per non parlare di chi, già nel secolo scorso, teorizzava la necessità di vivere secondo determinati canoni più a misura d’uomo.
La discussione nel corso della presentazione è stata davvero coinvolgente e ha stimolato domande di un certo spessore. Ma il fatto sorprendente e che l’incontro è “cresciuto” col passare dei minuti sino al punto massimo, registrato quando una donna presente si è consegnata nelle mani di Simone Perotti, chiedendo conforto per le proprie coraggiose scelte - come quella di aver optato volontariamente per il part time- e operando una sorta di confessione che ha dato la sensazione di  una liberazione terapeutica.
Ciò che sto trattando con una buona dose di cosciente e ricercata superficialità, e cioè i dettagli dell’opera, dovranno essere scoperti, step by step, nel corso della lettura.
Personalmente sono rimasto entusiasta dai principi e ritengo che ciò che gli autori hanno illustrato debba costituire uno stimolo alla riflessione; tra il bianco e il nero ci sono una vasta gamma di tonalità che rappresentano la posizione che ognuno di noi può assumere, magari modificandola col passare del tempo. L’importante è prendere coscienza che è finito il mondo che abbiamo ingenuamente creduto fosse l’unico possibile e che la “crescita continua” era un’illusione e, con un po’ di attenzione in più, lo avremmo potuto capire da tempo. Questa consapevolezza può portarci almeno a qualche piccola variazione nello stile di vita che, se passata ai nostri figli, può essere l’origine del vero cambiamento culturale.
Avrei potuto essere al posto di Perotti o meglio, assieme a lui, alla Ubik, e sarei stato in grado di parlare per ore, per giorni, forse, dando spunti per confermare le parole dello scrittore. Lo farò in altro modo, iniziando dal diffondere questo mio scritto.
In tutto quanto sentito e letto ho però trovato qualcosa che rende difficile l’applicazione in determinati casi, nonostante la convinzione di operare scelte coraggiose.
Colgo poche parole tratte dal libro: “ Lo scollocamento è una scelta dell’individuo…”. L’impressione che ho avuto è che, se da un lato capire e agire può essere fatto estremamente rapido, dall’altro diventano proibitive le scelte collettive, laddove i componenti di una famiglia, fatta di uomini e donne inseriti in contesti conosciuti, possono non condividere o non percepire il bisogno di cambio di rotta, così come la tranquillità economica può essere necessaria in alcuni momenti fondamentali, come ad esempio il completamento di un ciclo di studio.
Simone Perotti potrà darmi qualche delucidazione supplementare, ma credo che lui  e Paolo Ermani abbiano centrato almeno parte dell’obiettivo, consapevoli che i cambiamenti culturali richiedono del tempo, e che il loro libro è un concentrato di stimoli che vanno nella giusta direzione.
Da qualche parte occorre iniziare, senza pensare di scalare in un sol giorno una montagna, e una piccola e inusuale azione, prolungata nel tempo, può fornire il coraggio necessario ad un passo successivo. “Ufficio di scollocamento” mi ha dato la spinta per attuare una prima piccola, significativa modifica… e altre seguiranno, in quello che poteva essere lo speranzoso sottotitolo del libro…”effetto domino”.



“Ufficio di scollocamento” ,  di  Simone Perotti e Paolo Ermani
Editore Chiarelettere


INFO DALLA RETE

Simone Perotti (www.simoneperotti.com) dopo quasi vent’anni di lavoro nel settore della comunicazione ha lasciato tutto e oggi si dedica a scrivere e navigare. È autore del primo libro che ha portato in Italia il fenomeno del DOWNSHIFTING (scalare marcia, rallentare), ADESSO BASTA (Chiarelettere 2009, 11 edizioni). Con Chiarelettere ha pubblicato anche AVANTI TUTTA (2011).

Paolo Ermani (www.pensarecomelemontagne.it), presidente dell’associazione Paea (Progetti alternativi per l’energia e l’ambiente), da oltre due decenni lavora sui temi energetici, ambientali e degli stili di vita. Ha pubblicato, con Valerio Pignatta, PENSARE COME LE MONTAGNE (Ed.Terra Nuova 2011). È tra gli ideatori del quotidiano on line “Il Cambiamento”.


lunedì 4 agosto 2014

“Stelle grigie-racconti”. il libro di Luca Vicenzi



Ho da poco terminato la lettura di  “Stelle grigie-racconti”, in una modalità per me anomala, un file PDF che scorre più o meno veloce sotto ai miei occhi. Pare sia il futuro, ma la carta, se si parla di libri, resta ancora la mia scelta primaria.
Dopo l’immagine iniziale, capace di dare indicazioni, se si possiede un certo allenamento e un minimo di sensibilità, sono “caduto” sulla prefazione di Emanuele Rozzoni, eminente letterato che fornisce una sua visione precisa dell’autore e della sua opera.
Per avere un’idea della lunghezza dello scritto, ho fatto scorrere velocemente il cursore e mi sono arrestato sulla postfazione di Fabrizio Fantoni, professionista nel campo della Psicologia e Psicoterapia, che nell’occasione indaga sui personaggi e sulle ambientazioni che li vedono in azione, motivando alcuni comportamenti all’interno di episodi caratterizzanti, utilizzati per un’analisi precisa e coinvolgente.
Raccontata così potrebbe sembrare l’inutile scoperta dell’assassino, in un giallo avvincente, prima di aver letto le premesse, e come ci viene spesso ricordato, l’obiettivo non è la meta, ma il percorso. Concordo.
Ciò che Luca Vicenzi descrive non è fortunatamente materia per soli esperti e studiosi, e questo mi permette  di affermare con soddisfazione che “Stelle grigie” non è parto per sola nicchia.
Conosco Luca da molti anni, ma non lo conosco.
Specifico, non ho mai avuto il piacere di un incontro personale, ma attraverso conoscenze comuni e un po’ di sana tecnologia, sono entrato nel suo mondo musicale, ho conosciuto i suoi progetti, e ho estrapolato un’immagine di genio, che crea indipendentemente da ciò che il mercato vorrebbe, utilizzando il mondo dei suoni per comunicare, anche se l’impressione è che sia più importante la ricerca rispetto alla preoccupazione di essere compresi sino in fondo. Sì, la musica che ho assimilato, la sua musica, non si preoccupa dell’eventuale isolamento, e forse proprio in quello trova una buona motivazione nello sperimentare.
Intendiamoci, il problema riguarda migliaia di anime che rifiutano la sfera commerciale, ma nel caso specifico, ritornando al libro, posso dire che quanto ho letto non mi ha stupito, anzi, ha arricchito la mia picture di Luca, confermando le impressioni basate su alcuni CD e su qualche scambio di battute via mail, diventate poi interviste.
Luca Vicenzi snocciola una serie di racconti - ventidue mi pare - che sforando nel campo musicale potrei definire elementi di un concept album, interconnessi tra loro, eppure episodi singoli che vivono di vita propria.
Ripensando ai diversi momenti in cui ho portato avanti la lettura, direi che ogni narrazione potrebbe essere considerata rappresentativa dell’intero libro, essendo un concentrato capace di contenere un significato che si ritrova cammin facendo, riga dopo riga.
Se dovessi dare un colore con cui dipingere adeguatamente il libro, associando umore a contenuti, non esiterei nell’usare il grigio, sfumatura che mi ha accompagnato per tutta la lettura, e sono certo di non essere stato influenzato dal titolo dell’opera.
Impossibile non immedesimarsi in una delle tante situazioni descritte, talmente reali che devono per forza far parte del vissuto - più o meno diretto - di Vicenzi.
Stati di disperazione, di alienazione, di disagio acuto, di apparente sollievo e rapido ritorno alla realtà, con epiloghi che aspettano una continuazione, e momenti in cui si è presi dall’angoscia. E’ un racconto del sociale malato che è ben conosciuto, che per lungo tempo si legge solo nei contenitori di altri, mantenendo le distanze, e che poi arriva a colpirci quando meno ce lo aspettiamo, e capiamo magari che da tempo era in atto una pericolosa convivenza, forse latente, inconscia, all’improvviso manifesta.
Mestieri precari, amori impossibili, racconti di fantasia, con un fondo estremamente corposo che si chiama solitudine, anche in mezzo a milioni di persone.
Viviamo in un’era caratterizzata da immense possibilità tecnologiche, e la comunicazione viaggia in un nanosecondo verso gli estremi del mondo, rimandandoci indietro una risposta, più o meno soddisfacente, nello stesso spazio temporale. Eppure… nessuno è capace di ascoltare, in modo attivo intendo.
La lettura ha contemplato numerose soste riflessive, e in una di queste mi è venuto spontaneo pensare a quante persone ho conosciuto nella vita capaci di “saper ascoltare”, e la risposta che mi sono dato è drammatica, perché, ben che vada, sono racchiuse nel pugno di una mano.
Che cosa può alleggerirci nel percorso? Cosa può attenuare il dolore?
Forse condividerlo senza pudore, alla ricerca di un positivo punto di incontro.
Forse il viaggio della nostra vita, reale o immaginario, purché in corretta compagnia.
Il tutto non può prescindere dall’amore, anch’esso da mettere in comune, amore per una donna, per un uomo, per qualsiasi entità capace di dare una risposta e chiudere il loop. O forse il solo sapere donare, senza chiedere niente in cambio, è un modello perfetto a cui ispirarsi.
Ritorno alla musica, una trama scritta apposta per “Stelle grigie”.
Abbandona per un attimo l’avanguardia, la sperimentazione, l’elettronica, Luca.
Inventa qualcosa che possa diventare il sottofondo dei tuoi personaggi, dall’operaio demotivato all’impiegato frustrato, dall’amante ferita al tassista vissuto.
Ma inventa soprattutto la colonna sonora dell’infelicità diffusa di cui racconti.
Per me è chiara la scelta, solo un lungo e sofferto blues può esprimere certi sentimenti: “no pain no blues…”. E assieme al grido di dolore nascerà anche la speranza che solo quella musica è capace di contenere, una visione che tende ad allontanarsi dal grigiore a cui accennavo, verso la ricerca di colori più decisi e positivi, gradazioni che hanno a che fare con la certezza che prima o poi qualcosa accadrà. E noi sapremo cogliere l’attimo.

“E dopo un viaggio lungo una vita, muovendo sempre nella stessa direzione, si ritrovò al punto di partenza, con occhi nuovi per vedere, e finalmente la sua sete si placò: la meta era raggiunta, finalmente a casa...".