Il 3 ottobre 1941 nasceva a Spring Gully, South
Carolina, Ernest Evans, destinato a diventare universalmente noto come Chubby Checker. Con la sua energia travolgente
e il sorriso contagioso, avrebbe rivoluzionato la musica pop e la cultura
giovanile degli anni ’60, portando il ballo Twist dalle piste da ballo
ai salotti di tutto il mondo.
Nel 1960, Chubby Checker incise una cover del brano “The
Twist” di Hank Ballard. La sua versione, accompagnata da una performance
televisiva che mostrava il nuovo stile di ballo, divenne un successo
planetario. Il Twist era semplice, liberatorio, e soprattutto non richiedeva
contatto fisico tra i ballerini-una novità assoluta per l’epoca.
Nel 1961, Checker bissò il successo con “Let’s Twist Again”,
un inno alla nuova moda che consolidò il suo status di icona pop. Il brano
vinse un Grammy Award e contribuì a rendere il Twist un vero e proprio movimento
culturale, simbolo di emancipazione giovanile e rottura con le convenzioni.
Le apparizioni di Chubby Checker in programmi come American
Bandstand furono decisive. Il suo stile era accessibile, il ritmo
irresistibile, e il ballo diventò un rituale collettivo. Per la prima volta, la
musica pop non si limitava all’ascolto: coinvolgeva il corpo, la socialità, la
moda.
Chubby Checker non fu solo un interprete, ma anche un
catalizzatore. Il Twist aprì la strada a una serie di balli individuali come il
Pony, il Limbo, il Shake, e influenzò profondamente la scena beat e
rock’n’roll. Ancora oggi, il suo nome è sinonimo di divertimento, libertà e
innovazione.
Un compleanno da
ricordare
Il 3 ottobre è quindi il giorno in cui, idealmente, la musica
pop imparò a ballare. Chubby Checker ha reso il ritmo un’esperienza collettiva,
e il suo Twist continua a far girare il mondo.
Il 2 ottobre 1945 nasceva a New Rochelle, New York, Don McLean, un cantautore destinato a lasciare
un segno indelebile nella storia della musica popolare americana. Con una
carriera che abbraccia oltre mezzo secolo, McLean è universalmente celebrato
per aver creato due inni generazionali: la criptica ed epica "American
Pie" e la commovente ballata "Vincent" (conosciuta anche
come "Starry Starry Night").
Pubblicata nel 1971, "American Pie" è diventata un
pezzo di storia culturale americana. Con i suoi otto minuti e mezzo di durata,
il brano è un'opera folk-rock complessa e liricamente densa, una vera e propria
allegoria della perdita dell'innocenza e del cambiamento sociale negli Stati
Uniti, dalla fine degli anni '50 ai primi anni '70.
Il testo è famoso per i suoi riferimenti velati e per la sua
natura enigmatica. McLean stesso ha mantenuto il riserbo sul significato esatto
dei versi per decenni, invitando gli ascoltatori a interpretare la sua poesia.
La frase chiave che inquadra il tema del brano è "The
Day the Music Died", un riferimento al disastro aereo del 3
febbraio 1959 che costò la vita alle leggende del rock 'n' roll Buddy Holly,
Ritchie Valens e J.P. "The Big Bopper" Richardson. La canzone è un
lamento per la fine di un'era musicale e, per estensione, per un'America più
semplice.
Se "American Pie" ha definito McLean come narratore
epico, "Vincent" (1971) lo ha consacrato come un lirico di profonda
sensibilità. Dedicata al pittore olandese Vincent van Gogh, la canzone è una
ballata acustica che rende un toccante omaggio alla vita e all'arte
dell'artista tormentato.
La melodia delicata e il testo poetico, che si apre con
l'evocativo verso "Starry starry night..." (Nessuno ha mai dipinto
un quadro che mostrasse il dolore e la tristezza nel cuore dell'uomo?),
catturano perfettamente l'isolamento e la bellezza tragica delle opere di Van
Gogh. La canzone è diventata un classico intramontabile, dimostrando la
capacità di McLean di tradurre l'arte visiva in emozione musicale pura.
Oltre ai suoi due capolavori, Don McLean ha pubblicato
numerosi album e canzoni di successo, affermandosi come una delle voci più
importanti del folk e del pop-rock. La sua influenza è evidente in generazioni
di cantautori che ne hanno emulato la profondità lirica e la maestria melodica.
La sua opera, in particolare "American Pie", ha
ispirato innumerevoli analisi, saggi e documentari, solidificando il suo posto
non solo come musicista, ma come cronista della cultura americana. Nel 2015, il
manoscritto originale di "American Pie" è stato venduto all'asta per
oltre 1,2 milioni di dollari, a testimonianza del suo immenso valore storico e
culturale.
Il 2 ottobre diventa quindi l'occasione per celebrare una
carriera che ha arricchito il panorama musicale mondiale con canzoni destinate
a risuonare per sempre.
Ferriday, Louisiana – 1° ottobre 2025. Oggi, nel giorno in cui avrebbe
compiuto 90 anni, il mondo della musica ricorda la nascita di Jerry Lee Lewis, il leggendario “The Killer”
che ha incendiato il palco e rivoluzionato il rock and roll.
Nato il 29 settembre 1935, Lewis è stato molto più di un
pianista virtuoso: è stato un uragano di talento, eccessi e passione. Con brani
come Whole Lotta Shakin’ Goin’ On e Great Balls of Fire,
ha trasformato il pianoforte in uno strumento selvaggio, ribelle, capace di
competere con le chitarre elettriche per potenza e carisma.
Jerry Lee Lewis non si è mai piegato alle regole. La sua
carriera è stata segnata da scandali, matrimoni controversi e momenti di gloria
assoluta. Nel 1958, il matrimonio con la cugina tredicenne Myra Gale Brown gli
costò la reputazione e il successo internazionale, ma non riuscì a spegnere la
sua fiamma creativa.
Negli anni ’60 e ’70, Lewis si reinventò come artista
country, dimostrando una versatilità rara e una profondità emotiva che pochi
avrebbero immaginato. La sua voce, graffiante e sincera, ha raccontato storie
di dolore, redenzione e ribellione.
Jerry Lee Lewis è stato uno dei primi ad essere inserito
nella Rock and Roll Hall of Fame nel 1986. Il suo stile ha influenzato artisti
come Elton John, Bruce Springsteen e persino punk rocker che ne hanno ammirato
l’energia distruttiva.
Oggi, a novant’anni dalla sua nascita, lo ricordiamo come un
pioniere, un provocatore, un genio indomabile. La sua musica continua a
scuotere le fondamenta della cultura pop, e il suo spirito vive in ogni artista
che osa sfidare le convenzioni.
Il 30 settembre 1968, il mondo assisteva all'apice di un
fenomeno musicale destinato a lasciare un segno indelebile: il singolo dei Beatles
"Hey Jude" raggiungeva la
vetta delle classifiche di vendita, dove sarebbe rimasto per ben nove settimane
negli Stati Uniti e avrebbe dominato in innumerevoli paesi. Più che un semplice
successo commerciale, fu un momento di svolta, un inno universale di speranza che
ridefiniva i confini della musica pop.
La storia di "Hey Jude" è intrisa di umanità e
affetto. Fu scritta da Paul McCartney in un momento difficile per la famiglia di
John Lennon. Dopo che John aveva lasciato la prima moglie, Cynthia, per Yoko
Ono, Paul si recò a far visita a Cynthia e al loro figlio, Julian.
Inizialmente intitolata "Hey Jules" (il soprannome
di Julian), la canzone nacque come un incoraggiamento, una melodia consolatoria
per il bambino che stava vivendo il trauma del divorzio dei genitori.
L'intenzione di McCartney era racchiusa in quel verso semplice ma potentissimo:
"Take a sad song and make it better" (Prendi una canzone
triste e rendila migliore).
"Hey Jude" è una pietra miliare non solo per il suo
messaggio, ma anche per la sua struttura. Con i suoi 7 minuti e 11 secondi,
divenne all'epoca il brano più lungo ad aver mai raggiunto il primo posto nella
classifica britannica dei singoli.
La composizione di "Hey Jude" si divide chiaramente
in due momenti distinti. All'inizio, la canzone si presenta come una ballata
intima e riflessiva. Le prime strofe costruiscono un crescendo emotivo, dove
Paul McCartney offre consigli e conforto attraverso una melodia toccante e
testi profondamente riflessivi. Questa atmosfera cambia radicalmente dopo circa
quattro minuti, quando il brano si trasforma nel suo leggendario finale. Per
più di tre minuti, la canzone si sviluppa in un'epica coda: un crescendo
orchestrale imponente si fonde con il celebre canto corale dei "Na-na-na-na-na",
che diventa un vero e proprio mantra collettivo e un invito all'unità e
alla partecipazione.
Il successo di "Hey Jude" fu semplicemente sbalorditivo.
Con vendite che superarono gli 8 milioni di copie in tutto il mondo, il brano
stabilì nuovi record e, in quanto primo singolo pubblicato dalla neonata
etichetta dei Beatles, la Apple Records, divenne immediatamente un'icona per
diverse ragioni. Innanzitutto, riuscì a rompere le regole: la sua lunga durata
sfidò apertamente le convenzioni radiofoniche dell'epoca, dimostrando che la
qualità e l'emozione della musica potevano superare le rigide limitazioni di
tempo imposte dalle stazioni. Inoltre, divenne un vero e proprio inno
generazionale: il suo messaggio di speranza, l'incoraggiamento a superare il
dolore e l'invito ad "uscire e prenderlo" (ovvero a fare la propria
parte) risuonò profondamente con lo spirito del 1968, un anno segnato da grandi
cambiamenti sociali e culturali. Oggi, a distanza di decenni, "Hey
Jude" è ancora riconosciuto come un capolavoro senza tempo, celebrato per
la sua melodia indimenticabile e per il suo outro catartico che continua
a unire il pubblico di ogni età.
Il 30 settembre 1968, "Hey Jude" non solo andò in
cima alle classifiche, ma cementò lo status dei Beatles come i giganti della
musica, capaci di trasformare un momento di difficoltà personale in un inno
universale di resilienza.
Roma, 28 settembre 2025 - Il mondo del giornalismo sportivo è in lutto per la
scomparsa di Carlo Sassi, storico
volto della Rai e pioniere nell'introduzione della moviola in televisione,
venuto a mancare ieri, 28 settembre 2025, all'età di 95 anni.
Carlo Sassi (Milano, 1º ottobre 1929 – 28 settembre 2025) è
stato un innovatore che ha radicalmente cambiato il modo di raccontare il
calcio e lo sport sul piccolo schermo. La sua carriera è indissolubilmente
legata all'introduzione, a partire dal 1967, del rivoluzionario strumento della
moviola all'interno della trasmissione "La Domenica Sportiva".
L'uso del replay per analizzare, con rigore e
professionalità, gli episodi controversi delle partite, è stata una sua
intuizione che ha segnato un'epoca. Per decenni, Sassi ha accompagnato milioni
di telespettatori, offrendo una prospettiva critica e basata sull'evidenza
filmata, rendendolo un punto di riferimento imprescindibile nel dibattito
calcistico post-partita.
Il suo approccio, pur suscitando talvolta dibattiti con la
stampa sportiva dell'epoca, preoccupata di vedere smentiti i propri resoconti,
ha elevato il livello dell'analisi sportiva televisiva, portando maggiore
trasparenza e chiarezza nelle decisioni arbitrali più discusse.
La Rai, per cui ha lavorato per gran parte della sua
carriera, ha espresso profondo cordoglio per la perdita di un professionista
che ha lasciato un segno indelebile nella storia del giornalismo sportivo
italiano. Sassi, inoltre, era noto anche per essere un grande appassionato
della Cremonese, di cui era diventato sostenitore per la forte amicizia con lo
storico presidente Domenico Luzzara.
Con la scomparsa di Carlo Sassi, l'Italia perde non solo un
giornalista di grande levatura, ma anche un vero e proprio pioniere della
comunicazione sportiva. La sua eredità, incarnata oggi in tutte le moviole e i
replay che sono parte integrante di ogni programma sportivo, continuerà a
vivere.
Il 28 settembre è la data di nascita di Brigitte Bardot(Parigi,
1934), l'attrice, cantante e modella francese che ha segnato profondamente la
cultura popolare e il cinema del dopoguerra. Nata a Parigi nel 1934, l'attrice,
cantante e icona di stile non è stata solo una diva, ma una vera e propria
forza della natura che ha ridefinito la femminilità e la libertà nel XX secolo.
Oggi celebriamo la donna che, a soli 38 anni, ha avuto il
coraggio di voltare le spalle alla fama planetaria per dedicare la sua vita a
una causa più grande, consacrandosi alla difesa degli animali.
Prima di diventare l'attivista appassionata, c'era l'attrice
che ha sconvolto l'immaginario collettivo. La carriera di Bardot decolla
ufficialmente nel 1956 con il film del suo allora marito, Roger Vadim, "E Dio creò la donna" (Et Dieu... créa la femme).
La pellicola fu un vero e proprio manifesto.
L'interpretazione di Bardot nei panni di un'adolescente disinvolta e sensuale,
che viveva la sua libertà sessuale senza sensi di colpa, fece di lei
l'incarnazione di una nuova era: la "sex kitten" che
anticipava la rivoluzione sessuale degli anni '60. Il suo corpo, i suoi capelli
biondi scarmigliati e il suo savoir-faire sfrontato frantumarono i
canoni di bellezza e moralità dell'epoca.
Sebbene "E Dio creò la donna" sia stato il suo
trampolino di lancio, la Bardot ha lasciato un segno indelebile in numerosi
capolavori del cinema d'autore:
"La Verità" (La
Vérité, 1960) di Henri-Georges Clouzot, dove dimostrò un'inaspettata
capacità drammatica, che le valse il David di Donatello per la migliore
attrice straniera.
"Il disprezzo"
(Le Mépris, 1963) di Jean-Luc Godard, un film simbolo della Nouvelle
Vague che la vede protagonista accanto a Michel Piccoli, in una delle
rappresentazioni più intense e malinconiche dell'amore e della
disillusione.
"Viva Maria!"
(1965), una commedia avventurosa di Louis Malle dove fece coppia con
un'altra leggenda francese, Jeanne Moreau.
Nel 1973, all'apice della fama, Brigitte Bardot prese una
decisione che scioccò il mondo del cimena: il ritiro dalle scene. Abbandonò
Hollywood, Saint-Tropez e le luci della ribalta per dedicarsi interamente a ciò
che definì la sua vera vocazione: la difesa degli animali.
La sua celebre frase, "Ho donato la mia
giovinezza e la mia bellezza agli uomini, ora dono la mia saggezza e la mia
esperienza agli animali", riassume perfettamente la sua seconda
vita.
Fonda la Fondation Brigitte Bardot e negli anni successivi
utilizza la sua voce e la sua notorietà per campagne contro la caccia, lo
sfruttamento degli animali e il commercio di pellicce. Le sue prese di
posizione, talvolta controverse e schiette, non hanno mai messo in discussione
la sua passione e il suo impegno incrollabile per i diritti degli animali.
Oggi, la sua eredità va ben oltre i 45 film girati: Brigitte
Bardot rimane l'emblema di una donna che ha saputo imporre la propria libertà,
prima sullo schermo e poi nella vita, dimostrando che la vera icona è colei che
non ha paura di cambiare il mondo, anche rinunciando a una corona.
Il mondo della musica italiana piange la scomparsa di Christian, nome d'arte di Gaetano Cristiano
Vincenzo Rossi, il popolare cantante noto per i suoi successi melodici
negli anni '80. Christian è morto all'età di 82 anni, al Policlinico di Milano,
dove era ricoverato in seguito a un'emorragia cerebrale. La notizia è stata
comunicata dalla famiglia.
Nato a Palermo nel 1943, Christian ha conquistato il pubblico
con il suo stile elegante e romantico, tanto da meritarsi l'appellativo di
"Julio Iglesias italiano". La sua carriera è stata costellata di
successi, in particolare con brani indimenticabili come "Daniela"
(1982) e "Cara" (1984), quest'ultima arrivata al terzo posto
al Festival di Sanremo.
Prima di dedicarsi completamente alla musica su suggerimento
di Mina, che gli diede anche il nome d'arte, Christian aveva coltivato la
passione per il calcio, giocando nelle giovanili del Palermo e poi al Mantova,
prima che un infortunio lo costringesse ad abbandonare il campo.
Negli anni d'oro, la sua voce, per cui scrissero anche autori
come Bruno Lauzi, Mogol e Cristiano Malgioglio, lo portò a esibirsi in tour
internazionali e persino a cantare per Papa Giovanni Paolo II, guadagnandosi il
soprannome di "cantante del Papa".
Christian fu sposato con l'ex showgirl Dora Moroni dal
1986 al 1997, un'unione che attirò l'attenzione mediatica anche per le
vicissitudini legate alla salute di lei, vittima di un grave incidente
stradale, e per le successive tensioni di coppia. Nonostante il divorzio, i due
avevano ritrovato un'armonia professionale negli ultimi anni, esibendosi e
incidendo un brano insieme nel 2017.
Con sei partecipazioni al Festival di Sanremo, Christian
rimane una delle voci simbolo della melodia romantica italiana, lasciando
un'eredità di milioni di dischi venduti e canzoni che hanno segnato un'epoca.
In questi giorni, a Savona, l'allarme meteo ha impedito il
regolare ritiro della plastica, secondo regole stabilite ma non conosciute da
tutti, o cmq dimenticate. I cittadini hanno lasciato i sacchetti della plastica
per strada, e lì sono rimasi a lungo, creando una situazione di disagio e
confusione. Lasciamo perdere per una volta la ricerca del colpevole e
allarghiamo il discorso.
Questo evento, per quanto eccezionale, ha riportato in primo
piano una problematica più subdola e frequente: l'accumulo di rifiuti e il degrado
urbano come segnale di abbandono. Non è raro vedere sacchetti depositati fuori
orario, marciapiedi sporchi o cestini traboccanti, anche in assenza di allarmi.
Come qualcuno ha giustamente fatto notare, il degrado chiama degrado.
Questo circolo vizioso trova una spiegazione illuminante
nella Teoria delle Finestre Rotte (Broken Windows Theory), un
concetto che ha rivoluzionato il modo di pensare la sicurezza urbana e la lotta
alla criminalità. Vediamo come un semplice sacchetto di plastica o una panchina
danneggiata possano diventare i primi segnali di una spirale ben più
pericolosa.
L'idea che il disordine fisico inneschi il caos sociale non
nasce solo da osservazioni generiche. Fu lo psicologo Philip Zimbardo a
fornire la base empirica già nel 1969 con un esperimento illuminante:
Zimbardo lasciò due auto identiche abbandonate in due
quartieri molto diversi: una nel Bronx a New York (area povera e ad alto
tasso di criminalità) e l'altra a Palo Alto in California (quartiere
ricco e tranquillo).
1.Bronx: L'auto
fu rapidamente smontata e vandalizzata nel giro di poche ore.
2.Palo Alto:
L'auto rimase intatta per giorni.
Tuttavia, il vero punto di svolta arrivò quando i ricercatori
ruppero un vetro dell'auto di Palo Alto. A quel punto, in breve tempo, anche
quell'auto fu completamente vandalizzata.
La conclusione fu chiara: non è solo la povertà o la
demografia a innescare la criminalità. Il fattore decisivo è il segnale di
abbandono veicolato da quella prima "finestra rotta". Se a nessuno
importa di un danno, l'impunità è implicita e autorizza a commettere altri
atti.
Riprendendo questo principio, alcuni sociologi coniarono, nel
1982, la Teoria delle Finestre Rotte. La loro idea è che il disordine
minore (come i graffiti, la spazzatura, o appunto una finestra rotta non
riparata) è l'inizio di una spirale discendente:
Un
piccolo segno di incuria trasmette un messaggio chiaro: "A nessuno
importa. Qui le regole possono essere violate".
Questa
percezione di impunità incoraggia i piccoli trasgressori e crea paura nei
residenti onesti.
I
cittadini smettono di frequentare gli spazi comuni e diminuiscono la sorveglianza
informale sul vicinato.
Questo
"vuoto di controllo" viene percepito dai criminali più seri come
un invito, portando all'escalation verso il crimine maggiore.
L'applicazione più famosa e controversa si ebbe a New York
City negli anni '90, dove l'amministrazione di Rudy Giuliani e il commissario William
Bratton adottarono una politica di tolleranza zero (zero tolerance).
Reprimendo severamente i reati minori, miravano a ristabilire l'ordine fin
dalle basi. I tassi di criminalità scesero drasticamente, ma non senza pesanti
conseguenze.
Il punto più dolente è che la politica di "tolleranza
zero" è stata accusata di aver portato a un'applicazione della legge sproporzionata
nei confronti di minoranze e persone a basso reddito. Molti studiosi, inoltre,
sostengono che la caduta della criminalità a New York fu dovuta anche a fattori
demografici ed economici, ridimensionando il ruolo esclusivo della teoria.
In conclusione, la Teoria delle Finestre Rotte ci insegna che
l'ambiente in cui viviamo ha un impatto profondo sul nostro comportamento e sul
senso di comunità. La vera sfida, quindi, è duplice: le istituzioni devono
agire prontamente per riparare le "finestre rotte" fisiche, ma i
cittadini devono fare la loro parte nel mantenere il controllo sociale
informale, vigilando sui propri spazi e non tollerando i piccoli segni di
abbandono.
Il 25 settembre 1965 è una data
fondamentale nella storia della cultura pop: i Beatles debuttano con la loro
serie a cartoni animati sulla rete televisiva ABC
Nel lontano 25 settembre 1965, un evento che avrebbe
segnato la cultura pop ebbe luogo negli Stati Uniti: la prima puntata della
serie animata The Beatlesandò in onda sul canale televisivo ABC. Prodotta
da Al Brodax, la serie era un'estensione del fenomeno della
"Beatlemania" che aveva già conquistato il mondo.
La serie presentava versioni animate, e spesso umoristiche,
di John, Paul, George e Ringo. Ogni episodio, che
durava circa mezz'ora, raccontava le loro avventure comiche, spesso in giro per
il mondo, e conteneva due canzoni del vasto repertorio del gruppo. Sebbene i
veri Beatles non abbiano mai doppiato i personaggi (le voci erano affidate ad
attori che ne imitavano l'accento di Liverpool), la serie fu un enorme successo
di pubblico.
Questo cartone animato non era solo un modo per intrattenere,
ma contribuì a consolidare l'immagine pubblica dei Beatles come icone globali.
Divenne uno dei primi esempi di come una band potesse espandere il proprio
marchio oltre la musica, raggiungendo un pubblico ancora più vasto,
specialmente tra i più giovani. La serie andò in onda per 39 episodi, fino al
1967, diventando un pezzo fondamentale della storia del pop e dell'animazione.
Il cinema italiano e internazionale piange la scomparsa di Claudia Cardinale, una delle sue più grandi
icone. L'attrice, simbolo di bellezza, talento e forza, si è spenta a 87
anni, lasciando un vuoto incolmabile nel cuore di chi l'ha amata e
ammirata.
Nata Claude Joséphine Rose Cardinale il 15 aprile 1938 a
Tunisi, la sua vita è stata una narrazione straordinaria, quasi una
sceneggiatura, che l'ha portata per caso dai sobborghi della Tunisia ai set di
Hollywood. La sua carriera, inizialmente intrapresa quasi con riluttanza, si è
trasformata in un destino segnato da successi indimenticabili. La sua bellezza,
uno sguardo magnetico e una voce roca e inconfondibile, l'hanno resa una figura
unica, un'alternativa all'archetipo della "maggiorata" degli anni '50.
Il grande pubblico la ricorderà per sempre come Angelica
Sedàra ne Il Gattopardo, dove il suo valzer con Alain Delon è diventato
un'immagine eterna del cinema. Ma il suo talento ha saputo andare oltre la
semplice bellezza. Ha lavorato con i più grandi maestri, diventando la musa di Luchino
Visconti e Federico Fellini. Con Fellini, in 8½, ha mostrato una
vulnerabilità e una grazia uniche, mentre con Sergio Leone in C'era una
volta il West ha incarnato una donna forte e indomita, simbolo di
resilienza.
La vita di Claudia Cardinale non è stata solo fatta di
successi professionali. Ha affrontato le sfide personali con una dignità e un
coraggio rari, mantenendo la sua vita privata lontana dai riflettori per
proteggere i suoi affetti più cari. La sua figura è stata quella di una donna
che non si è mai piegata alle convenzioni, che ha saputo imporsi in un mondo
dominato dagli uomini e che ha vissuto ogni ruolo, sullo schermo e nella vita,
con una passione travolgente.
Il suo lascito artistico è immenso, fatto di oltre 150 film
che spaziano dal dramma alla commedia, dal western al film d'autore. Ma la sua
eredità più profonda è quella di una donna che ha saputo rimanere sè stessa,
autentica e fiera, in un mondo in cui le star sono spesso personaggi costruiti.
Con la sua scomparsa, si spegne l'ultima diva autentica,
l'attrice che ha fatto sognare intere generazioni e che resterà per sempre nei
fotogrammi indelebili della storia del cinema.
Il 24 settembre 1959,nel pieno boom economico,
fece la sua comparsa un piccolo, grande miracolo televisivo destinato a
diventare un'icona nazionale: lo Zecchino d'Oro.
Non era un semplice concorso, ma una vera e propria festa
della musica dedicata ai bambini, un'idea geniale e innovativa per l'epoca.
Nata da un'intuizione del giornalista e autore televisivo Cino Tortorella,
la manifestazione voleva dare voce all'innocenza e alla fantasia dei più
piccoli, trasformando le loro emozioni in canzoni.
La prima edizione non andò in onda dai grandi studi
Rai, ma dal Teatro dell'Arte di Milano. Cino Tortorella, che avrebbe
accompagnato il festival per decenni nei panni del Mago
Zurlì, ne fu il presentatore e l'anima. Quattordici brani si
sfidarono, interpretati da piccoli cantanti in erba, in un clima di gioia e
spontaneità che da subito catturò il cuore del pubblico.
A trionfare in quell'edizione pionieristica fu una canzone
che sarebbe rimasta impressa nella memoria collettiva: "Lettera a Pinocchio", cantata da Loredana Taccani. Scritta da Mario
Panzeri, il brano era un delicato invito al famoso burattino a non mentire, un
messaggio semplice e universale che ne decretò il successo.
Un fenomeno che supera il tempo
Lo Zecchino d'Oro si impose immediatamente come un evento
culturale e sociale. Ogni anno, intere famiglie si radunavano davanti al
televisore per scoprire le nuove canzoni, per tifare per i piccoli interpreti e
per ascoltare melodie che spesso celavano dietro la loro apparente semplicità
messaggi profondi. La manifestazione divenne presto il simbolo di un'infanzia
spensierata e di valori come l'amicizia, la famiglia e la solidarietà.
Dal 1961, l'organizzazione dell'evento fu affidata all'Antoniano
di Bologna, con la direzione artistica di Padre Berardo Rossi. Fu l'inizio di
una collaborazione che dura ancora oggi e che ha fatto dello Zecchino d'Oro non
solo uno show, ma anche un veicolo di beneficenza attraverso la campagna
"Fiori per un sì".
Quella prima trasmissione del 1959 fu solo l'inizio di una
storia lunga e ricca di successi. Lo Zecchino d'Oro ha saputo rinnovarsi pur
rimanendo fedele alla sua missione originaria: far cantare i bambini,
intrattenere le famiglie e, anno dopo anno, regalarci una piccola, preziosa
lezione di vita.
Oggi, 23 settembre, si festeggia il compleanno diGino Paoli, un artista che, a 91 anni,
continua a rappresentare un faro di autenticità e talento.
La sua non è stata una carriera fatta di successi a tutti i
costi, ma un percorso intessuto di vita vissuta, di passione e di scelte
coraggiose. Paoli non si è mai limitato a scrivere canzoni, ma ha scolpito
emozioni, dipinto atmosfere e raccontato frammenti di esistenze che sono
diventati patrimonio comune.
Nel vasto repertorio di Paoli, brani come "Sapore di sale", "Il cielo in una stanza" e "Una lunga
storia d'amore" si distinguono come esempi significativi del suo
stile. Queste canzoni, spesso definite "poesie in musica", mostrano
la sua abilità nel cogliere le complesse sfumature dei sentimenti umani. La sua
voce, caratterizzata da un timbro profondo, ha saputo interpretare la
malinconia e le diverse forme dell'amore in modo che il suo stile, pur non
seguendo le tendenze del momento, ha mantenuto nel tempo la sua rilevanza e il
suo impatto.
La vita di Gino Paoli è stata segnata da alti e bassi, da
momenti di grande successo e da periodi di riflessione. La sua arte, però, non
ha mai conosciuto compromessi. Ha sempre cantato ciò che sentiva, senza
piegarsi alle logiche del mercato. Per questo, forse, la sua musica è così vera
e toccante. Non è un prodotto, ma l'espressione di un'anima libera e sincera.
Gino Paoli ha saputo raccontare l'Italia e gli italiani, esplorando i
loro sogni e le loro fragilità. La sua influenza è evidente in diverse
generazioni di cantautori, che hanno riconosciuto in lui un punto di
riferimento. La sua musica continua a essere ascoltata e apprezzata, mantenendo
la sua capacità di evocare riflessioni ed emozioni.
Il 22 settembre 2004, andava in onda sulla ABC
l'episodio pilota di "Lost",
un evento che non era solo l'inizio di una serie, ma l'inizio di un fenomeno
culturale.
L'episodio, intitolato "Pilot: Part 1", ha
catapultato gli spettatori in un'esperienza mozzafiato. Il volo Oceanic
Airlines 815, diretto a Los Angeles da Sydney, si schianta su un'isola
misteriosa. Fin dai primi istanti, il caos del disastro aereo, l'inquietudine e
la disperazione dei superstiti hanno catturato l'attenzione di milioni di
persone. La regia di J.J. Abrams ha saputo mescolare sapientemente l'azione con
la suspense, lasciando subito intendere che quell'isola non era un luogo come
gli altri.
Il successo è stato immediato. L'episodio pilota, con un
budget di produzione mai visto prima per un pilot televisivo (si stima tra i 10
e i 14 milioni di dollari), ha attirato circa 18,6 milioni di spettatori. La
critica ha elogiato la qualità cinematografica, l'originalità della trama e la
profondità dei personaggi. "Lost" non era un semplice show sulla
sopravvivenza, ma un intricato puzzle di misteri: un orso polare, un fumo nero,
una botola, numeri ricorrenti e una voce che ripete un messaggio inquietante.
Il 22 settembre 2004 segna il punto di partenza di
un'avventura che ha tenuto incollati gli spettatori per sei stagioni, generando
teorie, forum di discussione e un fandom appassionato come pochi altri nella
storia della televisione. L'eredità di "Lost" va ben oltre la sua
trama: ha ridefinito il concetto di narrazione seriale e ha aperto la strada a
una nuova era di televisione di alta qualità, ricca di enigmi e colpi di scena.
Il quadro da cui prende spunto il testo a seguire è opera
dell'artista Patrizia Macchia, che
oggi ha inaugurato la sua mostra personale a Savona. L'esposizione si tiene
presso la Mostra Permanente delle Scienze Nautiche "Ferraris
Pancaldo", dove le sue opere sono esposte al pubblico.
Il Porto Rosa
Siamo vele bianche su un mare di
cristallo,
una distesa di blu e rosa, un
orizzonte nuovo.
La città ci chiama, un profilo grigio
e lontano,
ponti d'acciaio che ci accolgono,
grattacieli che sfidano le nuvole.
Il vento soffia, gonfia le nostre
ali,
ci spinge avanti, verso il confine
tra acqua e cemento.
Navighiamo in un sogno, in un
tramonto che non tramonta mai,
dove i colori si fondono e il cielo si riflette
nell'acqua.
Non c'è fretta in questa traversata,
solo la brezza
e il rumore dell'acqua che si spezza
sotto la prua.
Il 19 settembre 1996 segna una data fondamentale nella
storia della musica italiana: esce Anime salve, l'ultimo album in studio di Fabrizio
De André. Questo disco, scritto in collaborazione con il cantautore
genovese Ivano Fossati, rappresenta la summa artistica e umana di uno dei più
grandi poeti della canzone d'autore.
Anime salve non è solo un album, ma un vero e proprio testamento
spirituale e poetico. Le sue canzoni sono un viaggio tra gli ultimi, gli
emarginati, le "anime salve" che vivono ai margini della società. De
André canta i nomadi (Khorakhané), i diseredati (Smisurata preghiera),
le donne sole e le prostitute (Princesa). Con la sua inconfondibile
sensibilità, dà voce a chi non ce l'ha, portando alla luce le loro storie, le
loro sofferenze e la loro dignità.
Dal punto di vista musicale, il disco è un'opera coraggiosa e
innovativa. De André mescola sapientemente le sue radici mediterranee con
sonorità world music, folk e persino influenze orientali. Le melodie sono
complesse e raffinate, gli arrangiamenti curati nei minimi dettagli. La
collaborazione con Ivano Fossati, produttore artistico dell'album, si rivela
cruciale: Fossati riesce a dare nuova linfa alla musica di De André, senza
tradirne lo spirito profondo.
Tra le tracce più celebri, spiccano le già citate Princesa, che
racconta la storia di una transessuale brasiliana, e Smisurata preghiera,
un inno alla libertà e alla solidarietà tra gli ultimi. Ma ogni brano
dell'album è un piccolo capolavoro, una gemma preziosa che racconta una storia,
un'emozione, un'esperienza.
Anime salve ha un impatto profondo sulla scena musicale italiana,
ricevendo recensioni entusiastiche e vincendo numerosi premi, tra cui la Targa
Tenco per il miglior album dell'anno. Ma il suo vero valore va oltre i
riconoscimenti: è un album che parla al cuore delle persone, che le spinge a
riflettere e a guardare il mondo con occhi diversi. È l'ultimo grande regalo di
un artista che ha fatto della poesia il suo mestiere e che ha dedicato la sua
vita a dare voce a chi non ce l'ha.
Il 18 settembre 1964, le televisioni americane si
illuminarono per la prima volta con un'immagine destinata a rimanere impressa
nella storia della cultura pop: la lugubre e affascinante sigla de "La Famiglia Addams".
A dispetto del
suo aspetto macabro, questa sitcom in bianco e nero conquistò immediatamente il
pubblico, proponendo un'inversione comica delle tradizionali dinamiche
familiari.
Creata da Charles Addams, un talentuoso vignettista
del New Yorker, la serie portava in vita i personaggi che per decenni
avevano popolato le sue strisce a fumetti. Gli Addams, pur vivendo in una casa
piena di trappole, creature bizzarre e aggeggi inquietanti, erano una famiglia
straordinariamente unita e amorevole. L'umorismo della serie derivava proprio
dal loro approccio disinvolto e positivo a tutto ciò che per gli altri era
terrificante o strano.
Il successo della serie fu in gran parte dovuto
all'eccezionale alchimia del cast:
Gomez
Addams (John
Astin): un patriarca appassionato, sempre pronto a lottare con la spada o
a baciare con trasporto la sua amata Morticia.
Morticia
Addams (Carolyn
Jones): un'elegante e affascinante matriarca, dedita al giardinaggio (con
rose senza boccioli) e a conversazioni in francese.
Mercoledì (Lisa Loring) e Pugsley
(Ken Weatherwax): i due figli, con una passione per il macabro e giochi a
dir poco singolari.
Zio
Fester (Jackie
Coogan): il bizzarro zio, capace di accendere una lampadina in bocca.
Nonna
Addams (Blossom
Rock): la nonna "stregona" della famiglia.
Lurch (Ted Cassidy): il gigantesco
maggiordomo, con la sua inconfondibile voce roca.
Mano (Thing): una mano vivente e
senziente che si muoveva in un modo sorprendentemente espressivo.
Sebbene la serie sia durata solo due stagioni, la sua
influenza è stata enorme. "La Famiglia Addams" ha generato
numerosi remake, film per il cinema, cartoni animati e persino un musical di
successo a Broadway. L'immagine di questa famiglia "anormale" ma
felicemente unita ha dimostrato che la felicità non si misura con gli standard
convenzionali.
A quasi sessant'anni dalla sua prima messa in onda, la sua
storia continua a risuonare, ricordandoci che la diversità è un valore e che a
volte, per essere veramente se stessi, bisogna abbracciare anche il lato più
oscuro (e divertente!) della vita.
È morto all'età di 89 anni Robert
Redford, l'attore e regista premio Oscar che ha segnato intere
generazioni con il suo carisma, la sua bellezza e la sua profonda intelligenza.
È mancato ieri, 16 settembre 2025 nella sua amata casa di Sundance,
sulle montagne dello Utah, circondato dall'affetto della sua famiglia. A darne
notizia è stata la sua agente, Cindi Berger.
Redford non è stato solo un mito del cinema, ma un uomo che
ha utilizzato la sua fama per difendere ciò in cui credeva. Dal cinema
indipendente all'attivismo ambientale, la sua vita è stata un continuo
superamento dei confini che Hollywood cercava di imporgli.
Nato a Santa Monica, in California, nel 1936, Redford ha
sempre mostrato un'indole irrequieta. Attratto più dall'avventura che dagli
studi, trovò nel cinema la sua strada, dopo un periodo passato a vagabondare in
Europa e a lavorare come operaio. La sua grande occasione arrivò a Broadway con
"A piedi nudi nel parco" e poi, sul grande schermo, con il
ruolo che lo consacrò definitivamente: quello di Sundance Kid, al fianco di
Paul Newman in "Butch Cassidy" (1969). L'alchimia tra i due
attori era palpabile e si ripeté nel capolavoro "La stangata"
(1973), vincitore dell'Oscar per il miglior film.
Nonostante il successo, Redford non si è mai sentito a suo
agio con l'etichetta di "bello e impossibile". Ha interpretato ruoli
complessi e diversificati, come il giornalista di "Tutti gli uomini del
presidente" (1976), che svelò lo scandalo Watergate. Con il suo
sguardo profondo e il suo sorriso sornione, era in grado di trasmettere sia il
fascino del protagonista romantico, come in "Come eravamo" o "La
mia Africa", sia la determinazione di un uomo d'azione.
La sua passione per l'arte cinematografica lo spinse presto a
passare dietro la macchina da presa. Il suo debutto alla regia, "Gente
comune" (1980), gli valse l'Oscar come miglior regista e per il
miglior film, dimostrando una sensibilità e una profondità inaspettate. Anche
in questo campo, Redford ha lottato per realizzare film che andassero oltre le
convenzioni, come "In mezzo scorre il fiume" (1993) e "Quiz
Show" (1994).
Ma l'eredità più grande che ci lascia è senza dubbio il Sundance
Institute, da lui fondato nel 1981. Questa organizzazione, nata per
sostenere le voci nuove e indipendenti del cinema e del teatro, ha dato vita al
famoso Sundance Film Festival, la più importante vetrina per il cinema
indipendente negli Stati Uniti. Senza di lui, probabilmente non avremmo
conosciuto registi come Steven Soderbergh, Quentin Tarantino o Ryan Coogler.
Parallelamente alla sua carriera, Robert Redford ha sempre
coltivato un amore profondo per la natura. Trasferitosi nello Utah nel 1961, ha
dedicato gran parte della sua vita alla difesa dell'ambiente, lottando per la
conservazione dei paesaggi incontaminati dell'Ovest americano. Un attivismo
silenzioso e costante, che lo ha reso un punto di riferimento per le cause
ambientaliste.
Fino all'ultimo, Redford non ha mai smesso di recitare,
rifiutando l'idea di un vero e proprio ritiro. Il suo ultimo ruolo, in "Old
Man & the Gun" (2018), lo ha visto interpretare un rapinatore di
banche, un ruolo che gli ha permesso di uscire di scena con lo stile che lo ha
sempre contraddistinto.
Robert Redford lascia un vuoto incolmabile non solo come
attore, ma come uomo. Mancheranno la sua presenza sullo schermo e la sua
integrità fuori dal set. Ma la sua eredità, fatta di grandi film e di un
impegno costante per l'arte e l'ambiente, continuerà a ispirare le future
generazioni.
Il 16 settembre 1977, in un discreto appartamento di
Avenue Georges Mandel a Parigi, si spegneva Maria
Callas, la donna che aveva incarnato come nessun'altra il dramma, la
passione e la perfezione dell'opera. La sua morte, avvenuta all'età di 53 anni,
fu l'ultimo tragico atto di una vita che era stata, a sua volta, un'opera
d'arte.
Per il mondo, Maria Callas era semplicemente "La
Divina". Non era solo una cantante, ma una forza della natura che ha
rivoluzionato il bel canto. La sua voce, un "soprano drammatico
d'agilità", era in grado di passare con disinvoltura dal registro di
coloratura a quello più profondo e drammatico. Nonostante le critiche
occasionali per un timbro non sempre uniforme, la sua tecnica ineguagliabile e,
soprattutto, la sua capacità di interpretazione la rendevano unica. Maria
Callas non cantava un personaggio, lo diventava. Le sue performance non erano
esecuzioni, ma vere e proprie immersioni nell'anima dei personaggi, da una
fragile Violetta ne La Traviata a una tragica Norma di Bellini o a una
vendicativa Medea.
La sua carriera fu un susseguirsi di trionfi clamorosi, che
la portarono a essere l'artista più celebrata nei teatri più prestigiosi del
mondo, dalla Scala di Milano al Metropolitan di New York. Ma il successo
artistico si intrecciava inesorabilmente con una vita personale tormentata.
Dalle difficili relazioni familiari alla trasformazione fisica, fino alla
passione travolgente e distruttiva con l'armatore greco Aristotele Onassis. Il
loro legame, seguito con morbosità dalla stampa di tutto il mondo, finì bruscamente
quando lui la lasciò per sposare Jacqueline Kennedy. Un colpo che Maria non
superò mai del tutto, e che la portò a un progressivo allontanamento dalle
scene.
Negli ultimi anni, la sua voce, un tempo potente e sicura,
iniziò a mostrare segni di declino, costringendola a ritirarsi gradualmente
dalle esibizioni. I tentativi di un ritorno sulle scene, come la serie di
concerti con il tenore Giuseppe Di Stefano, si conclusero con un misto di
rimpianto e nostalgia. Il suo ritiro definitivo fu un atto silenzioso e
doloroso. Gli ultimi anni, trascorsi in solitudine nel suo appartamento
parigino, furono segnati dal dolore per la perdita di Onassis e per la
consapevolezza che la sua arte, come il suo amore, era arrivata alla fine.
La morte di Maria Callas ha sancito la fine di un'epoca.
Oggi, la sua leggenda continua a vivere attraverso le sue registrazioni, che
restano un punto di riferimento insuperabile per chiunque si avvicini
all'opera. Lei non è stata solo una cantante, ma un'icona di passione,
fragilità e forza, un'artista che ha saputo rendere il canto un'esperienza
umana e universale, destinata a non morire mai.
Il 15 settembre 2006, il mondo del giornalismo e della
letteratura italiana si fermava per dare l'ultimo saluto a una delle sue figure
più indomite e controverse: Oriana Fallaci.
La giornalista e scrittrice si spegneva a Firenze, la sua città natale, all'età
di 77 anni, dopo una lunga battaglia contro il cancro. La sua scomparsa segnò
la fine di un'era per la stampa, lasciando un vuoto immenso, fatto di
ammirazione incondizionata e di critiche feroci.
La vita di Oriana Fallaci fu una saga di coraggio e
determinazione. Già giovanissima, partecipò alla Resistenza partigiana,
un'esperienza che ne forgiò il carattere ribelle e intransigente. Questo
spirito la accompagnò per tutta la sua carriera giornalistica. Iniziò come
inviata speciale, coprendo alcuni dei conflitti più sanguinosi del XX secolo,
dal Vietnam al Medio Oriente, raccontando la guerra con uno
sguardo lucido e profondo, che non si limitava ai fatti ma esplorava l'umanità
dei protagonisti.
Ma a consacrarla a livello internazionale furono le sue
interviste. Oriana Fallaci non era una semplice cronista: era una duellante,
che affrontava i potenti del mondo con una preparazione maniacale e una
sfrontatezza inaudita. Politici, dittatori e leader religiosi come Henry
Kissinger, Muʿammar Gheddafi e, in particolare, l'Ayatollah
Khomeini, furono messi alle strette dalle sue domande dirette, al limite
della provocazione. Le sue interviste non erano solo dialoghi, ma veri e propri
scontri, in cui l'intervistato si trovava costretto a confrontarsi non solo con
lei, ma con la propria immagine pubblica.
Negli ultimi anni della sua vita, Fallaci divenne la
protagonista di un'ultima, grande polemica. Dopo gli attentati dell'11
settembre 2001, ruppe un lungo silenzio per pubblicare "La rabbia e
l'orgoglio", un saggio-manifesto che denunciava il pericolo del
fondamentalismo islamico e l'immigrazione incontrollata. Il libro, e i
successivi come "La forza della ragione", le valsero accuse di
islamofobia e razzismo. Nonostante le critiche, Fallaci non si tirò indietro,
difendendo le sue posizioni con la stessa veemenza con cui aveva intervistato i
potenti, sostenendo di aver espresso un grido di allarme per la civiltà
occidentale.
La sua eredità rimane complessa. C'è chi la ricorda come una
paladina della libertà di parola, una donna che ha avuto il coraggio di dire
ciò che pensava senza compromessi. E c'è chi la vede come una figura divisiva,
che ha contribuito a polarizzare il dibattito pubblico. Qualunque sia il
giudizio, è innegabile che Oriana Fallaci abbia lasciato un segno indelebile,
un'impronta di intelligenza, irriverenza e passione che ha segnato
profondamente la storia del giornalismo italiano e internazionale.