L'idea che alimenta il concetto di “Musica di qualità"
conduce a un terreno scivoloso, un vero e proprio campo minato tra gusto
personale e criteri oggettivi.
Nel corso di un'intervista, nel febbraio 2019, Vittorio
Nocenzi del Banco del Mutuo Soccorso, un gigante della musica progressiva
italiana, mi raccontò un aneddoto illuminante sul loro classico intramontabile,
"Non mi rompete". Mi disse che quel brano, pur essendo oggi un
pilastro della loro discografia e amatissimo dai fan, rimase nel cassetto per
ben sei anni! Il motivo? Lui stesso lo giudicava troppo semplice rispetto alle
complesse architetture musicali che il Banco proponeva negli anni '70. Eppure,
con la saggezza che solo il tempo può dare, Nocenzi ammise: "A distanza di
anni mi è chiaro che un brano così bello non lo scriverò mai più."
Questa storia racchiude perfettamente il dilemma: un'opera
può essere giudicata "troppo semplice" dai suoi stessi creatori o da
un certo ambiente musicale, eppure contenere una forza, una bellezza, una
capacità di comunicare che la rende immortale. La musica, in fondo, ci colpisce
nel profondo, e la nostra reazione emotiva è quasi sempre la prima, la più
immediata. Ma se provassimo a guardare un po' più a fondo? Se ci fosse qualcosa
di più di un semplice "mi piace" o "non mi piace" a
definire se un pezzo musicale è davvero ben fatto?
È una domanda che ha animato dibattiti per secoli, tra filosofi, musicologi e semplici appassionati. E la verità è che, pur riconoscendo l'innegabile importanza della soggettività, esistono dei criteri oggettivi, quasi delle "regole d'oro", che possono aiutarci a capire quando una composizione trascende il comune e raggiunge un livello di vera eccellenza. Non si tratta di togliere magia all'esperienza musicale, ma piuttosto di offrire degli strumenti per apprezzarla in modo più consapevole e profondo.
Immaginiamo di costruire un palazzo. Ogni mattone, ogni
trave, ogni finestra deve avere un suo perché, una sua posizione logica per far
sì che la struttura sia solida e armoniosa. La musica non è tanto diversa. Un
brano di qualità superiore, al di là del suo genere o del suo stile, rivela
quasi sempre una struttura ben pensata e coerente. Non è un'accozzaglia di note
messe a caso, ma un viaggio sonoro dove ogni elemento ha un suo ruolo preciso.
Pensiamo a come i temi musicali vengono presentati, poi sviluppati, trasformati e riproposti in modi diversi. C'è un equilibrio tra le diverse sezioni – l'introduzione, la strofa che racconta una storia, il ritornello che ci rimane in testa, il ponte che ci porta altrove e la coda che ci saluta. Non è detto che debba essere una struttura rigida, anzi, a volte le opere più innovative giocano proprio con queste convenzioni. Ma anche in quei casi, c'è una logica intrinseca, una volontà compositiva che si percepisce, e che fa sì che il brano "funzioni". Le armonie e le melodie non sono messe a caso, ma seguono un filo logico, anche quando sono audaci o inusuali.
Quante volte ci è capitato di ascoltare qualcosa e pensare:
"Ecco, questo l’ho già sentito"? La musica che ci colpisce
davvero, che ci rimane impressa, è spesso quella che ci offre qualcosa di nuovo
e inaspettato. Non significa per forza stravolgere tutto, ma piuttosto prendere
elementi noti e rielaborarli in modo fresco, oppure introdurre idee musicali
che prima non avevamo mai considerato. È il segno di un compositore o di un
artista che non si accontenta di seguire la scia, ma cerca di aprirne una sua.
L'originalità può manifestarsi in tanti modi: un linguaggio armonico che ci sorprende, una linea melodica che non cade nel banale, una struttura che ci fa esplorare territori inesplorati, o un uso creativo dei timbri, magari con strumenti inusuali o effetti sonori che creano atmosfere uniche. La musica di qualità evita il cliché, la soluzione facile, cercando sempre di superare le aspettative.
Che si tratti di un pezzo classico suonato da un'orchestra o
di un brano elettronico prodotto in studio, la maestria tecnica è un elemento
imprescindibile. Non è solo questione di "saper suonare uno
strumento", ma di una padronanza profonda della musica stessa. Per un
compositore, significa saper orchestrare gli strumenti in modo che si fondano
perfettamente, creando tessiture sonore ricche e bilanciate. Significa scrivere
con chiarezza e precisione, senza lasciare nulla al caso o all'ambiguità.
E se parliamo di esecuzione, che sia dal vivo o registrata, la qualità dell'interpretazione è fondamentale. L'intonazione impeccabile, il ritmo preciso, le dinamiche che creano tensione e rilascio, e soprattutto l'espressività: tutto contribuisce a dare vita alla partitura e a elevare il brano a un livello superiore. Non importa quanto sia brillante una composizione, se l'esecuzione non le rende giustizia, qualcosa si perde.
Questo è forse il criterio più sentito, quello che ci tocca
più da vicino. Una musica di oggettiva qualità non è solo un esercizio tecnico,
ma ha il potere di muoverci dentro, di evocare emozioni, di creare una
connessione profonda. Non stiamo parlando del semplice "mi emoziona perché
mi ricorda qualcosa", ma della capacità intrinseca del brano di comunicare
un messaggio, un'atmosfera, uno stato d'animo che risuona con un pubblico più
ampio.
Quando un pezzo musicale ci cattura fin dalle prime note, quando ci tiene incollati fino alla fine, quando una melodia o un accordo ci rimane impresso nella mente anche dopo aver smesso di ascoltare, quello è il segno di un impatto emotivo significativo. È la capacità di un'opera di essere espressiva, di raccontare qualcosa senza bisogno di parole, toccando corde universali.
Infine, c'è la profondità. Non pensiamo subito a brani
difficili da capire o troppo intellettuali. La profondità non è necessariamente
sinonimo di complessità tecnica esagerata. Piuttosto, è la capacità di un brano
di rivelare sempre nuove sfumature ad ogni ascolto. Quel piccolo dettaglio
armonico che non avevamo notato la prima volta, un controcanto che emerge solo
dopo diversi ascolti, la sottile interazione tra gli strumenti che crea nuove
texture sonore.
Una musica di qualità superiore non si esaurisce al primo contatto. Anzi, spesso ci invita a tornare, a esplorare, a scoprire nuovi significati e nuove sensazioni. È come un buon libro che rileggiamo e che ci rivela sempre qualcosa di nuovo, o un paesaggio che osserviamo e che, con luci diverse, ci mostra dettagli inediti. È questo che rende l'esperienza musicale duratura e gratificante nel tempo.
Ed è qui che entra in gioco un aspetto cruciale, che a volte
viene dimenticato nella ricerca della "perfezione tecnica" o
dell'innovazione a tutti i costi. La musica ha un compito primario e
potentissimo: quello di dare benessere. Di emozionare, di farci ballare, di
farci riflettere, di consolarci. E questo benessere, questa connessione
emotiva, non sempre è strettamente legato alla complessità armonica o alla
maestria strutturale di cui abbiamo parlato.
A questo proposito, estremizzando la personalizzazione del
pensiero, devo confessare che alcune musiche mi fanno venire letteralmente i
brividi, partendo dal collo e irradiandosi fino in fondo all'anima. La cosa più
affascinante è che si tratta quasi di un'azione a comando: conoscendo quali
sono i brani che mi procurano questo benessere intenso, mi basta schiacciare il
bottone dello "start" e, con un minimo di concentrazione, il
"miracolo" si ripete.
Pensiamo a una composizione classica, magari una sinfonia
complessa di Mahler o un'ardita fuga di Bach. Certo, riconosciamo in esse una
qualità oggettiva immensa, frutto di genio e di una maestria compositiva
ineguagliabile. Il modo in cui le melodie si intrecciano, le armonie si
risolvono, la struttura si dispiega è qualcosa di sublime.
Ma cosa succede se una persona trova un profondo senso di
gioia, leggerezza o conforto in una canzone oggettivamente “semplice”, magari
un brano da tre accordi? Se quel pezzo, nella sua immediatezza e semplicità,
riesce a strapparle un sorriso, a farle ballare in cucina o a riportarle alla
mente un ricordo felice, quel brano assume automaticamente una dignità immensa.
La sua "qualità" non è data dalla sua complessità, ma dalla sua
efficacia nel raggiungere il suo scopo: generare benessere nell'ascoltatore.
Non possiamo negare la "nobiltà" di una
composizione classica, né la genialità che spesso la sottende. Ma allo stesso
tempo, sarebbe limitante non riconoscere il valore profondo e la
"qualità" emotiva di un brano più semplice, che magari non rispetta
tutti i canoni accademici, ma che centra perfettamente il suo obiettivo
principale: regalare un momento di felicità o di evasione.
In definitiva, cercare la "qualità oggettiva" nella
musica non è un modo per imbrigliare la creatività o per dire che un genere sia
migliore di un altro. È piuttosto un tentativo di capire cosa rende certe
composizioni così potenti, così durature, così universalmente ammirate, al di
là delle mode e delle preferenze personali. Ma al contempo, dobbiamo sempre
tenere a mente che la vera misura del valore di un brano, per l'ascoltatore,
risiede spesso nella sua capacità di connettersi con l'anima e di generare quel
prezioso benessere che solo la musica sa dare.
Ma sono certo che l’ascolto comparato tra “Firth of Fifth” dei Genesis e “Finche la barca va” di Orietta Berti, potrà essere illuminante!
Nessun commento:
Posta un commento