Musica, parole e i limiti della spiegazione: perché l'arte va vissuta, non solo raccontata
"Parlare di musica è come ballare di
architettura." Questa frase, spesso attribuita al geniale
musicista e compositore Frank Zappa, è diventata un mantra per molti, anche se
la sua paternità è dibattuta e potrebbe essere un falso d'autore.
Indipendentemente da chi l'abbia pronunciata per primo, l'aforisma racchiude
una profonda riflessione sulla natura dell'arte e sui limiti del linguaggio
quando cerchiamo di descrivere qualcosa di intrinsecamente esperienziale.
Pensiamoci un attimo: se qualcuno provasse a
"ballare" per spiegarci la maestosità del Colosseo o l'eleganza del
Duomo di Milano, probabilmente lo guarderemmo un po' confusi. Potrebbe muoversi
in modi che evocano le forme e i volumi, ma non ci darebbe mai la piena
percezione di stare dentro quelle strutture, di toccare le pietre, di
sentirne la storia e il peso del tempo. L'architettura, dopotutto, va vissuta,
percorsa, osservata con tutti i sensi.
Lo stesso, ci suggerisce questa potente analogia, vale per la
musica. Possiamo usare aggettivi come "melodiosa,"
"potente," "armoniosa" o "cacofonica." Possiamo
analizzare le scale, gli accordi, il ritmo e la strumentazione. Ma tutte queste
parole, per quanto accurate, non riusciranno mai a catturare l'emozione pura
che una sinfonia di Beethoven può scatenare, l'energia incontenibile di un
brano rock suonato dal vivo o la malinconia avvolgente di una ballata jazz in
una serata piovosa. La musica è un'esperienza sensoriale e intellettuale
complessa. Ti entra dentro, ti smuove l'anima, ti fa ballare, riflettere,
piangere o sognare. È un linguaggio universale che parla direttamente al cuore,
spesso bypassando completamente la logica e la necessità di una spiegazione
verbale. Cercare di imprigionare questa esperienza profonda in una mera
descrizione a parole è un tentativo vano, quasi ridicolo. È come cercare di
afferrare l'acqua con le mani: puoi sentirne la presenza, percepirla, ma non la
puoi tenere, non la puoi contenere.
In fondo, questa affermazione, celebre anche se forse non
originale di Zappa, ci insegna diverse cose importanti, che vanno ben oltre il
solo ambito musicale e toccano la comunicazione in generale. Ci ricorda
innanzitutto di riconoscere i limiti del linguaggio: non tutto può essere
spiegato a parole. Ci sono esperienze, sensazioni, sapori, odori, che vanno
semplicemente vissuti per essere compresi appieno. Insistere a descriverli può
solo sminuirli, privandoli della loro essenza più vera. Ci fa riflettere anche
sull'importanza dell'esperienza diretta: per capire veramente qualcosa, spesso
non basta sentirne parlare. Dobbiamo immergerci, provare, sperimentare in prima
persona. La lezione di uno strumento, un concerto dal vivo, un viaggio in una
città nuova: sono tutte esperienze che superano di gran lunga qualsiasi
racconto, perché coinvolgono l'essere umano nella sua totalità. Infine, ci
invita ad apprezzare l'ineffabile, quelle cose che hanno un valore proprio
perché sfuggono a una definizione precisa. La magia di un'opera d'arte, la
bellezza mozzafiato di un paesaggio, la complessità profonda di una relazione
umana. A volte, il silenzio, l'osservazione e la contemplazione sono molto più
eloquenti e significativi di qualsiasi parola.
In un'epoca in cui siamo sommersi da parole, commenti,
recensioni e descrizioni per ogni singola cosa, il monito celato in questa
frase risuona forte, invitandoci a fare un passo indietro. Ci ricorda che
l'essenza più profonda di alcune esperienze risiede proprio nella loro
intraducibilità verbale. E che, forse, per apprezzare davvero la musica – o
qualsiasi altra forma d'arte e di vita – dovremmo semplicemente ascoltarla,
viverla intensamente e lasciarci trasportare, senza il bisogno ossessivo di
spiegarla o di "ballarne l'architettura."
Nessun commento:
Posta un commento