Una piccola analisi di un fenomeno psicologico sconcertante, in cui le vittime sviluppano un legame emotivo con i loro aguzzini
Che cosa è la Sindrome di Stoccolma? È uno di quei
termini che a volte sbucano fuori nei notiziari o nelle discussioni, e che
spesso lasciano un senso di incredulità. Come è possibile, ci chiediamo, che
una persona rapita o maltrattata possa arrivare a provare una forma di legame,
o addirittura empatia, per i propri aguzzini? Sembra assurdo, quasi una follia.
Eppure, non è follia, ma piuttosto una delle dimostrazioni più estreme e
complesse di quanto la nostra mente sia capace di adattarsi, anche di fronte
all'orrore più puro.
Per capire da dove arriva questo nome così particolare,
dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, precisamente nell'agosto del 1973, a
Stoccolma. Immaginiamo una normale giornata estiva che si trasforma in un
incubo: quattro impiegati della Kreditbanken si ritrovano ostaggi di due
rapinatori. Sei lunghissimi giorni rinchiusi in un caveau, tra la paura e
l'incertezza.
Quello che accadde dopo, però, lasciò tutti sbalorditi. Al
momento della liberazione, gli ostaggi non mostrarono alcun segno di
risentimento o rabbia verso i loro sequestratori. Anzi, si arrivò al punto in
cui alcune di loro espressero preoccupazione per il destino dei criminali e
persino una certa diffidenza verso la polizia. Kristin Enmark, uno degli
ostaggi, disse addirittura di sentirsi più sicura con i rapitori che con le
forze dell'ordine. Fu un vero e proprio shock per l'opinione pubblica e per gli
esperti, tanto che il criminologo e psichiatra Nils Bejerot coniò l'espressione
"Sindrome di Stoccolma" per descrivere questa dinamica
psicologica così sconcertante.
Ma come si arriva a un punto del genere? Non parliamo certo
di un "innamoramento" nel senso romantico del termine, ma quello che
accade è qualcosa di molto più profondo e, in un certo senso, primitivo: è un meccanismo
di sopravvivenza che si attiva inconsciamente quando ci si trova in una
situazione di pericolo estremo e totale dipendenza.
Proviamo a metterci nei panni di chi vive quell'esperienza.
Sei isolato, la tua vita è appesa a un filo, e l'unica interazione umana che
hai è con chi ti sta minacciando. In un contesto del genere, qualsiasi gesto
che non sia violenza pura, qualsiasi piccola concessione – anche solo un
bicchiere d'acqua o una parola che non sia un ordine – viene percepito come
un'enorme "gentilezza", un segno di umanità da parte di chi detiene
il potere assoluto sulla tua esistenza. Questa "briciola" di umanità
diventa un appiglio, un modo per ridurre la paura e per mantenere viva la
speranza.
Si crea una sorta di legame distorto, dove la vittima, per
sopportare l'orrore, inizia inconsciamente a "umanizzare" l'aguzzino,
magari cercando di capire le sue motivazioni, o addirittura identificandosi con
lui per ridurre la propria angoscia. È un po' come se la psiche, per non
crollare, cercasse di trovare un senso, una logica, anche dove non c'è,
aggrappandosi a qualsiasi barlume di "normalità" offerto
dall'aguzzino. In questo contesto, anche la minaccia di morte può trasformarsi,
paradossalmente, in un gesto che ti "salva" se l'aguzzino decide di
non attuarla, rafforzando ulteriormente quel senso di gratitudine.
È importante capire che la Sindrome di Stoccolma non è
confinata solo ai casi di rapimento plateali. Le sue dinamiche, purtroppo,
possono echeggiare in contesti molto diversi, magari meno evidenti ma
altrettanto dolorosi. Pensiamo alle relazioni domestiche violente, dove una
vittima di abuso fisico o psicologico può sviluppare una lealtà o un
attaccamento inspiegabile verso il proprio aggressore, difendendolo o
giustificando le sue azioni. O ancora, in certi settarismi o culti, dove i
membri possono mostrare una devozione quasi cieca verso il leader, anche quando
questi li manipola e li sfrutta.
In tutti questi casi, il filo conduttore è sempre lo stesso:
una situazione di potere squilibrato, dove la vittima è isolata, spaventata e
dipendente dal suo aguzzino, il quale, alternando minacce e (apparenti) atti di
gentilezza, crea una gabbia psicologica da cui è incredibilmente difficile
uscire.
È fondamentale ripeterlo: la Sindrome di Stoccolma non è una
debolezza, né tantomeno una scelta consapevole. Nessuno "vuole"
provare affetto per chi gli fa del male. È, piuttosto, una risposta psicologica
disperata, una strategia di coping che la mente mette in atto per proteggersi,
per cercare di sopravvivere in circostanze altrimenti insostenibili.
Comprendere questo fenomeno ci permette di guardare con più empatia e meno giudizio le vittime di traumi estremi. Ci ricorda che la mente umana è un universo di risorse e adattamenti, capace di risposte sorprendenti e a volte dolorose, ma sempre orientate alla sopravvivenza, anche quando il percorso intrapreso sembra totalmente incomprensibile dall'esterno. È una testimonianza silenziosa della forza e, al tempo stesso, della vulnerabilità della psiche umana.
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