West Virginia

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Buckhannon, West Virginia dicembre 1996

giovedì 12 giugno 2025

La Sindrome di Stoccolma: quella curva inaspettata della psiche umana

 


Una piccola analisi di un fenomeno psicologico sconcertante, in cui le vittime sviluppano un legame emotivo con i loro aguzzini


Che cosa è la Sindrome di Stoccolma? È uno di quei termini che a volte sbucano fuori nei notiziari o nelle discussioni, e che spesso lasciano un senso di incredulità. Come è possibile, ci chiediamo, che una persona rapita o maltrattata possa arrivare a provare una forma di legame, o addirittura empatia, per i propri aguzzini? Sembra assurdo, quasi una follia. Eppure, non è follia, ma piuttosto una delle dimostrazioni più estreme e complesse di quanto la nostra mente sia capace di adattarsi, anche di fronte all'orrore più puro.

Per capire da dove arriva questo nome così particolare, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, precisamente nell'agosto del 1973, a Stoccolma. Immaginiamo una normale giornata estiva che si trasforma in un incubo: quattro impiegati della Kreditbanken si ritrovano ostaggi di due rapinatori. Sei lunghissimi giorni rinchiusi in un caveau, tra la paura e l'incertezza.

Quello che accadde dopo, però, lasciò tutti sbalorditi. Al momento della liberazione, gli ostaggi non mostrarono alcun segno di risentimento o rabbia verso i loro sequestratori. Anzi, si arrivò al punto in cui alcune di loro espressero preoccupazione per il destino dei criminali e persino una certa diffidenza verso la polizia. Kristin Enmark, uno degli ostaggi, disse addirittura di sentirsi più sicura con i rapitori che con le forze dell'ordine. Fu un vero e proprio shock per l'opinione pubblica e per gli esperti, tanto che il criminologo e psichiatra Nils Bejerot coniò l'espressione "Sindrome di Stoccolma" per descrivere questa dinamica psicologica così sconcertante.

Ma come si arriva a un punto del genere? Non parliamo certo di un "innamoramento" nel senso romantico del termine, ma quello che accade è qualcosa di molto più profondo e, in un certo senso, primitivo: è un meccanismo di sopravvivenza che si attiva inconsciamente quando ci si trova in una situazione di pericolo estremo e totale dipendenza.

Proviamo a metterci nei panni di chi vive quell'esperienza. Sei isolato, la tua vita è appesa a un filo, e l'unica interazione umana che hai è con chi ti sta minacciando. In un contesto del genere, qualsiasi gesto che non sia violenza pura, qualsiasi piccola concessione – anche solo un bicchiere d'acqua o una parola che non sia un ordine – viene percepito come un'enorme "gentilezza", un segno di umanità da parte di chi detiene il potere assoluto sulla tua esistenza. Questa "briciola" di umanità diventa un appiglio, un modo per ridurre la paura e per mantenere viva la speranza.

Si crea una sorta di legame distorto, dove la vittima, per sopportare l'orrore, inizia inconsciamente a "umanizzare" l'aguzzino, magari cercando di capire le sue motivazioni, o addirittura identificandosi con lui per ridurre la propria angoscia. È un po' come se la psiche, per non crollare, cercasse di trovare un senso, una logica, anche dove non c'è, aggrappandosi a qualsiasi barlume di "normalità" offerto dall'aguzzino. In questo contesto, anche la minaccia di morte può trasformarsi, paradossalmente, in un gesto che ti "salva" se l'aguzzino decide di non attuarla, rafforzando ulteriormente quel senso di gratitudine.

È importante capire che la Sindrome di Stoccolma non è confinata solo ai casi di rapimento plateali. Le sue dinamiche, purtroppo, possono echeggiare in contesti molto diversi, magari meno evidenti ma altrettanto dolorosi. Pensiamo alle relazioni domestiche violente, dove una vittima di abuso fisico o psicologico può sviluppare una lealtà o un attaccamento inspiegabile verso il proprio aggressore, difendendolo o giustificando le sue azioni. O ancora, in certi settarismi o culti, dove i membri possono mostrare una devozione quasi cieca verso il leader, anche quando questi li manipola e li sfrutta.

In tutti questi casi, il filo conduttore è sempre lo stesso: una situazione di potere squilibrato, dove la vittima è isolata, spaventata e dipendente dal suo aguzzino, il quale, alternando minacce e (apparenti) atti di gentilezza, crea una gabbia psicologica da cui è incredibilmente difficile uscire.

È fondamentale ripeterlo: la Sindrome di Stoccolma non è una debolezza, né tantomeno una scelta consapevole. Nessuno "vuole" provare affetto per chi gli fa del male. È, piuttosto, una risposta psicologica disperata, una strategia di coping che la mente mette in atto per proteggersi, per cercare di sopravvivere in circostanze altrimenti insostenibili.

Comprendere questo fenomeno ci permette di guardare con più empatia e meno giudizio le vittime di traumi estremi. Ci ricorda che la mente umana è un universo di risorse e adattamenti, capace di risposte sorprendenti e a volte dolorose, ma sempre orientate alla sopravvivenza, anche quando il percorso intrapreso sembra totalmente incomprensibile dall'esterno. È una testimonianza silenziosa della forza e, al tempo stesso, della vulnerabilità della psiche umana.






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