West Virginia

West Virginia
Buckhannon, West Virginia dicembre 1996

sabato 31 maggio 2025

Eugenio Finardi e il suo messaggio: oltre lo specchio, verso il mondo autentico


 

Oltre il riflesso: un invito a guardare il mondo con occhi nuovi


A volte, un singolo verso di una canzone può diventare un potente monito, e la "Canzone dell'Acqua" di Eugenio Finardi, tratta dall'album Roccando Rollando del 1979, ne è un esempio perfetto. "Butta via lo specchio, ché c'è il mondo da guardare" – una frase che, seppur datata, risuona oggi con una forza sorprendente, invitandoci a riconsiderare il nostro rapporto con l'immagine e la realtà.

Nell'era dei filtri e delle auto-rappresentazioni digitali, lo "specchio" di Finardi è diventato molto più che un oggetto. È una metafora calzante della rete di riflessi virtuali che ci lega a una costante e quasi ossessiva cura della nostra immagine. Siamo immersi in un flusso continuo di costruzione di "brand personali", di versioni idealizzate di noi stessi sui social media. Questa perenne auto-contemplazione, questa ricerca di un riflesso perfetto e di un'approvazione esterna, rischia di farci perdere di vista il mondo vibrante e complesso che ci aspetta al di fuori della nostra bolla.

Finardi, con la sua intuizione poetica, ci propone un atto di liberazione: sbarazzarci di ciò che ci confina nel nostro piccolo universo egocentrico. "Buttare via lo specchio" non significa rinunciare all'auto-consapevolezza, ma liberarsi dalla prigionia dell'ego, dell'immagine superficiale e delle vanità. È un invito a distogliere lo sguardo dal riflesso per puntarlo verso l'infinito orizzonte delle possibilità.

Cosa c'è, esattamente, "da guardare" fuori da quello specchio? C'è la realtà nella sua cruda, meravigliosa autenticità. Ci sono i volti delle persone, le loro storie non filtrate, le loro gioie e i loro dolori che non passano attraverso un filtro digitale. C'è la natura, con la sua bellezza selvaggia, non riprodotta in uno sfondo perfetto, ma da esperire con tutti i sensi. Ci sono le ingiustizie, le sfide sociali, le opportunità di cambiamento e di crescita che attendono solo di essere riconosciute e affrontate. C'è la vita vera, con le sue imperfezioni, le sue complessità e le sue imprevedibilità, che spesso ci sfuggono mentre siamo intenti a ritoccare la nostra posa o a inseguire un'immagine ideale.

Questa frase è un richiamo potente all'empatia e all'azione. Le prime due righe della strofa di Finardi, "Goccia a goccia il sasso si buca / Sasso che rotola mai si consuma", ci parlano di perseveranza, trasformazione e resilienza, qualità che si sviluppano proprio nell'interazione con il mondo, non nella staticità del riflesso. "Guarda la vita che scorre / Lascia che ti porti con sé" è un invito all'apertura, alla fluidità, all'abbandono del controllo per abbracciare il flusso dell'esistenza.

Guardare il mondo, in questo senso, significa anche ascoltarlo, sentirlo, comprenderne le dinamiche profonde. Significa uscire dal proprio isolamento e immergersi nella condivisione, nell'interazione umana, nella partecipazione civica. In un'epoca di crescente polarizzazione e frammentazione, la capacità di "guardare il mondo" con occhi aperti e cuore disponibile è più che mai necessaria per costruire ponti, superare divisioni e trovare soluzioni comuni.

Dunque, mentre le piattaforme digitali ci spingono a perfezionare la nostra immagine, il saggio suggerimento di Finardi ci sussurra di fare il contrario: meno riflesso, più realtà. Meno io, più noi. Meno auto-contemplazione, più consapevolezza del vasto, pulsante e magnifico universo che ci circonda. È lì, fuori dalla nostra zona di comfort e dal nostro specchio, che la vita accade davvero, in tutta la sua sconfinata ricchezza. E aspetta solo di essere vissuta appieno.

Cosa scegliamo di guardare? Il nostro riflesso o il mondo che ci attende?





venerdì 30 maggio 2025

Oltre il Pareto: quando la metodologia guida al successo totale

 


Dedicato con stima a Salvatore Saliceti, la cui saggezza metodologica ha lasciato in me un segno indelebile 


"Ho sempre creduto che il principio di Pareto sia un faro guida, un punto di partenza essenziale. Ma non accontentiamoci di risolvere solo l'80%. La vera eccellenza, la perfezione che fa la differenza, si annida spesso in quel restante 20%. Non trascuriamo i dettagli, perché alla fine, saranno proprio quelli a condurci alla meta più ambiziosa."  Salvatore Saliceti

Nel complesso mondo aziendale, l'efficacia nella risoluzione dei problemi e nel perseguimento del miglioramento continuo rappresenta un fattore critico di successo. Spesso ci si imbatte nel Principio di Pareto, la celebre regola dell'80/20, che ci ricorda come una minoranza di cause possa generare la maggior parte degli effetti. Questa saggezza guida l'azione verso la prioritarizzazione delle aree di maggiore impatto.

Tuttavia, l'esperienza professionale mi ha insegnato una lezione preziosa, radicata nel ricordo di un mio vecchio direttore. Pur non possedendo una conoscenza tecnica approfondita dei dettagli operativi, la sua solida padronanza della metodologia di lavoro si rivelò uno strumento potente. Egli incarnava la figura del leader che, pur non navigando nelle minuzie, sapeva come strutturare il pensiero, porre le domande giuste e guidare il team verso soluzioni efficaci.

Questo mi ha portato a riflettere su un approccio che va oltre la semplice applicazione del Pareto. Sebbene concentrarsi sull'80% dei problemi generati dal 20% delle cause sia un punto di partenza efficiente, l'aspirazione all'eccellenza spesso richiede un passo ulteriore.

Immaginiamo uno scenario in cui, dopo aver risolto le criticità principali, rimangono piccole inefficienze che, sommate, possono ancora frenare il raggiungimento della performance ottimale.


L'approccio olistico:

Pareto come punto di partenza, il dettaglio come arrivo


La metodologia che propongo integra la potenza del principio di Pareto con una visione più olistica del miglioramento:

Focalizzazione Strategica (Fase Pareto): identificare e affrontare con priorità le cause che hanno il maggiore impatto sul problema. Questa fase permette di ottenere risultati significativi in tempi relativamente brevi.

Analisi Approfondita (Oltre il Pareto): una volta mitigati gli effetti principali, dedicare attenzione anche alle cause minori. Questo non significa perdersi in dettagli insignificanti, ma riconoscere che anche piccole ottimizzazioni possono contribuire in modo sostanziale al raggiungimento di un livello di performance superiore.

Ruolo del Manager, visione d'insieme e Facilitazione: qui emerge la saggezza del mio vecchio direttore. Un manager efficace non deve necessariamente conoscere ogni singolo dettaglio operativo. Il suo ruolo cruciale è quello di possedere una solida metodologia di problem solving, di saper guidare il team attraverso l'analisi, di porre le domande strategiche e di facilitare la ricerca di soluzioni dall'alto. Il suo compito è fornire la cornice metodologica e assicurare che il processo sia rigoroso e orientato all'obiettivo.

Contributo Collettivo: l'approccio al dettaglio non implica che il manager debba scendere nel micro-management. Al contrario, stimola il team a contribuire con la propria expertise specifica per identificare e risolvere anche le cause minori.

Miglioramento Continuo e Sostenibile: l'attenzione anche alle cause meno impattanti consolida i risultati ottenuti e crea una cultura del miglioramento continuo (Continuous Improvement), dove ogni aspetto del processo è costantemente sotto la lente d'ingrandimento.

In conclusione, la metodologia che conduce al successo totale riconosce la validità del principio di Pareto come punto di partenza strategico. Tuttavia, non si ferma alla risoluzione dell'80% dei problemi. Ambisce a un miglioramento completo, dove anche le cause meno evidenti vengono analizzate e affrontate. In questo contesto, il ruolo del manager si eleva: da esperto di dettaglio a guida metodologica, capace di orchestrare il talento del team verso un obiettivo comune di eccellenza. La vera "vetta" si raggiunge quando la visione strategica dall'alto si sposa con la meticolosa attenzione ai dettagli operativi, in un circolo virtuoso di miglioramento continuo.


Il sogno infranto e la beffa del destino: San Siro chiama due volte

 


C'è chi dice che il destino abbia un senso dell'umorismo crudele, e la storia di Niccolò ne è la prova lampante. A 27 anni, studi finiti e  un lavoro nel marketing di una banca d'investimenti, la sua vita sembrava procedere su binari ben definiti, anche se a quell'età, di questi tempi, nulla si può considerare definitivo... fortunatamente!

Ma sotto la superficie di numeri e strategie finanziarie, batte un cuore che da sempre pulsa al ritmo del calcio. Un amore viscerale, nato quasi per colpa mia, quando a soli sei anni lo portai per la prima volta a San Siro. In quello stadio leggendario, tempio delle sue domeniche rossonere, si accese una scintilla, un sogno bambino: un giorno, avrebbe giocato su quel prato. E io, ingenuamente, ci speravo con lui.

La realtà, come spesso accade, ha preso una piega diversa. Il sogno di calcare il campo di San Siro come calciatore professionista si è infranto tempo fa, lasciando il posto a una passione coltivata in altri modi. Il calcio è rimasto il suo faro, la sua bussola. Oltre al lavoro ha trovato sino ad oggi il tempo per scrivere articoli sportivi, per approfondire, per respirare il gioco che tanto ama. E un anno fa, con grande determinazione, ha deciso che la laurea non bastava, provando così ad investire sul suo vero desiderio e iniziando un Master sportivo, con l'obiettivo di trasformare la sua passione in una professione.

Il culmine formativo di questo percorso è arrivato il 29 maggio scorso, ieri, quando a Roma ha presentato la sua tesi, non una  qualunque, ma un lavoro di ricerca dedicato proprio al Milan e all'evoluzione del suo modello comunicativo, da Berlusconi ai giorni nostri. Un tributo al club che ama, un'analisi profonda di un mondo di cui vorrebbe fare parte.

E qui entra in gioco la beffa, l'ironia del destino che si diverte a mescolare le carte. Due giorni prima della discussione della tesi, il suo capo a Milano, quasi per caso, gli chiede: "Sai giocare a calcio?". La risposta è ovvia. E così arriva l'invito, inaspettato e surreale: una partita tra “dilettanti previlegiati”, forse per beneficenza, un momento di svago in un contesto aziendale. Fin qui, nulla di straordinario. Se non fosse che la partita, la partita che probabilmente non si presenterà mai più nella vita, si giocherà proprio lì. A San Siro. Il luogo del sogno infranto, il campo mai calpestato professionalmente, il tempio che ha alimentato le sue fantasie di bambino.

Tanto per essere chiari... la partita a San Siro, quella a cui è stato invitato a partecipare, è stata giocata nel momento in cui lui presentava la tesi!

Quando il destino si prende gioco di noi, a volte lo fa con una sottile, quasi crudele, genialità. Proprio nel momento in cui Niccolò stava per formalizzare il suo desiderio di entrare nel mondo del calcio attraverso la conoscenza e la teoria, gli è stata offerta l'opportunità di vivere, seppur in un contesto differente, quel sogno di bambino. Non come calciatore, ma pur sempre su quel prato. Una chiusura del cerchio, forse, o semplicemente un promemoria che ci ricorda che la vita è piena di ironie. E che, a volte, i sogni trovano modi inaspettati per tornare a bussare alla nostra porta.




martedì 27 maggio 2025

Quando l'universo fa le pulizie... a modo suo (e noi anche)

 


L'Entropia: dal rigore scientifico al caos quotidiano


In termodinamica, una cosa chiamata entropia ci dice quanto è "disordinato" un sistema, guardando le piccolissime parti che lo compongono (come atomi e molecole). Più "scombinate" sono le piccole parti, maggiore è l'entropia

Ma al di là della sua definizione scientifica, l'entropia si manifesta in modi sorprendentemente familiari nella nostra vita di tutti i giorni, come quella forza invisibile che trasforma l'ordine in disordine. Esploriamo insieme questa prospettiva "caotica" dell'entropia.

Rientra nella quotidianità provare quella strana sensazione per cui un attimo prima la casa è ordinata e splendente, e un attimo dopo sembra essere stata visitata da una folata di vento dispettosa. Come mai quella pila di magliette piegate con cura, misteriosamente, si è trasformata in un ammasso informe nell’armadio? Ecco, quella è l'entropia al lavoro: la tendenza naturale delle cose a passare da uno stato di ordine a uno di disordine, da una configurazione più improbabile a una più probabile.


L'armadio ribelle: un esempio di entropia domestica

Prendiamo proprio l'esempio dell'armadio. Quando pieghiamo i vestiti e li sistemiamo con cura, stiamo creando uno stato di bassa entropia: ogni capo ha il suo posto, è facile trovarlo, c'è un certo grado di organizzazione. Tuttavia, la vita di tutti i giorni introduce "energia" nel sistema: indossiamo i vestiti, li togliamo, a volte li riponiamo frettolosamente. Ci sono molti più modi possibili per i vestiti di essere disordinati che per essere perfettamente ordinati. Una maglietta può essere appoggiata sulla sedia, una calza sotto il letto, un paio di pantaloni stropicciati in un angolo. Ogni azione, anche la più piccola, ha molte più probabilità di portare il sistema verso uno stato di maggiore disordine.


Perché il caos sembra vincere sempre?

La ragione di questa "vittoria" del caos sta nel numero di possibilità. Immaginate di lanciare in aria un mazzo di carte perfettamente ordinato. Quante sono le possibili sequenze disordinate in cui le carte possono ricadere? Innumerevoli! Quante sono le sequenze perfettamente ordinate? Solo una. È statisticamente molto più probabile che il risultato sia disordinato.

Allo stesso modo, ci sono infiniti modi in cui i nostri oggetti possono essere sparsi per casa, ma solo un numero limitato di modi in cui possono essere perfettamente in ordine. I processi spontanei, quelli che avvengono senza un nostro intervento attivo, tendono a muoversi verso lo stato con il maggior numero di configurazioni possibili, che è lo stato di maggiore disordine, ovvero maggiore entropia.


Oltre il disordine fisico: l'entropia nella vita di tutti i giorni

L'entropia non si manifesta solo nel disordine fisico. Possiamo vederla all'opera anche in altri aspetti della nostra vita:

Le conversazioni: una discussione può iniziare in modo ordinato, con un argomento specifico, ma facilmente degenera in divagazioni, interruzioni e alla fine un "caos" di argomenti intrecciati.

La memoria: i ricordi tendono a sbiadire e a diventare meno nitidi nel tempo, perdendo la loro "organizzazione" iniziale. Dimenticare dettagli è una forma di aumento dell'entropia dell'informazione nel nostro cervello.

Le relazioni: anche le relazioni, se non curate e "ordinate" con attenzione, possono scivolare verso il disaccordo e la confusione.


Lottare controcorrente: l'ordine come sforzo attivo

Contrastare la naturale spinta verso il disordine (l'entropia) richiede un investimento costante di energia, che si traduce in azioni concrete come pulire casa, riordinare l'armadio, focalizzare una conversazione o sforzarsi di ricordare un dettaglio.

 

Un sorriso al caos quotidiano

In fondo, l'entropia è una legge fondamentale della natura. Anche se a volte può essere frustrante vedere il disordine riapparire inesorabilmente, è anche un promemoria del dinamismo del mondo che ci circonda. Forse, invece di combattere costantemente contro questa forza, possiamo imparare a conviverci, apprezzando i momenti di ordine come conquiste temporanee in un universo che tende naturalmente al caos. E magari, concederci un sorriso di fronte alla consapevolezza che il disordine sul nostro tavolo è solo la manifestazione quotidiana di una delle leggi più profonde della fisica!

Ma se l'universo tende in via naturale inesorabilmente verso la massima entropia, esiste un punto finale di non ritorno? Beh, la "morte termica" è lo scenario descritto dagli scienziati, un orizzonte così lontano da rendere quasi astratta la sua immaginazione. Eppure, persino il disordine che ritroviamo in casa ogni giorno è un piccolo eco di questa inesorabile legge cosmica.





lunedì 26 maggio 2025

Volti e torri: un mondo che cambia

 

 

New York, 1997:

 l'innocenza perduta di fronte a un futuro impensabile


La foto proposta nell’articolo, in cui si vedono in lontananza le Torri Gemelle, scattata da me nell'ottobre del '97, si lega in modo inequivocabile alla tragica situazione attuale attraverso un filo conduttore doloroso: la vulnerabilità umana di fronte a eventi catastrofici, siano essi provocati dall'uomo o dalla natura, e la successiva, spesso lenta e faticosa, elaborazione del trauma e della ricostruzione.

Le Torri Gemelle rappresentano un simbolo di quella che potremmo chiamare una "ferita aperta" globale. La loro caduta non fu solo un attacco terroristico, ma un evento che scosse la fiducia nella sicurezza e nell'immutabilità di certi assetti, portando a un'onda di paura, incertezza e, in molti casi, a risposte che hanno avuto ripercussioni a lungo termine sul piano geopolitico e sociale.

Oggi, osserviamo altre "ferite aperte" nel mondo: il conflitto in Ucraina, la crisi umanitaria a Gaza e in Sudan, le innumerevoli catastrofi naturali aggravate dai cambiamenti climatici che colpiscono intere popolazioni, lasciando dietro di sé distruzione, sfollati, e un immenso bisogno di aiuto.

La tua foto, con la sua inaspettata premonizione di fragilità, ci invita a riflettere:

  • La memoria della perdita: come il ricordo delle Torri Gemelle continua a segnare la nostra coscienza, così le tragedie attuali lasceranno cicatrici profonde nelle generazioni future. Ogni foto, ogni testimonianza di oggi, sarà la "mia foto del '97" per chi verrà.
  • La resilienza e la ricostruzione: dopo l'11 settembre, il mondo si è unito nel lutto e ha assistito a un incredibile sforzo di ricostruzione, sia fisica che emotiva. Le crisi attuali, sebbene diverse nelle loro cause, richiedono la stessa resilienza e, soprattutto, un impegno globale per alleviare la sofferenza e favorire la ripartenza.
  • La necessità di imparare dalla storia: la lezione delle Torri Gemelle ci ha insegnato quanto sia cruciale la solidarietà, l'empatia e la prevenzione. Di fronte alle tragedie odierne, dobbiamo chiederci se stiamo imparando, se stiamo agendo con sufficiente prontezza e lungimiranza per evitare che altre "torri" – siano esse edifici, vite o speranze – crollino.

L’immagine che propongo oggi non è solo un ricordo di un passato perduto, ma, credo, una potente metafora delle tragedie che continuano a scuotere il mondo. Ci ricorda che, di fronte alla distruzione e alla sofferenza, il nostro compito è non solo ricordare, ma anche agire, per costruire un futuro in cui la lezione del passato possa mitigare il dolore del presente e prevenire le catastrofi di domani.





domenica 25 maggio 2025

Seiryu Miharashi Eki: la stazione fantasma e il potere della presenza


  

In un Giappone che corre, una stazione invita a fermarsi. Scopriamo il fascino di Seiryu Miharashi Eki, dove l'unica destinazione è la pura contemplazione


Nel profondo sud del Giappone, in un angolo remoto della prefettura di Yamaguchi, si cela un luogo che sfida la logica convenzionale delle infrastrutture: la stazione ferroviaria di Seiryu Miharashi Eki. Non è una stazione nel senso tradizionale del termine. Non ha biglietterie, non ha negozi, non ha nemmeno strade che vi conducano. È un punto d'arrivo senza una vera destinazione, un invito al silenzio e alla riflessione, un'ode all'arte di fermarsi.

Immaginiamo di scendere da un treno in un luogo dove l'unico orizzonte è la natura selvaggia: il vento tra gli alberi, il mormorio di un fiume lontano, il profumo della terra. A Seiryu Miharashi Eki, non ci sono uscite, non c'è possibilità di allontanarsi a piedi. Una volta scesi sulla piattaforma, si è sospesi nel tempo, isolati da qualsiasi traccia di civiltà. Questa singolarità, apparentemente assurda in un mondo ossessionato dall'efficienza e dalla connettività, è in realtà la sua più grande forza. L'assenza di stimoli esterni, di rumore urbano, di cartelli da seguire, ci costringe a rivolgerci verso l'interno, a confrontarci con il nostro stesso respiro, con i nostri pensieri non filtrati.

L'esistenza di Seiryu Miharashi Eki è un potente promemoria in un'epoca dominata dalla velocità, dalla produttività e dalla costante ricerca di progresso. Siamo programmati per muoverci, per raggiungere il prossimo obiettivo, per riempire ogni spazio vuoto della nostra giornata. Questa stazione, al contrario, ci impone un'immobilità forzata. Ci chiede di rallentare il passo, di guardare con attenzione, di respirare profondamente. In questa pausa forzata, quasi come in una meditazione obbligata, abbiamo l'opportunità di riscoprire la bellezza dell'essere semplicemente presenti.

In un mondo dove l'attenzione è una risorsa sempre più scarsa e frammentata, Seiryu Miharashi Eki ci offre un santuario per la nostra mente. È un luogo dove il tempo sembra espandersi, permettendoci di osservare veramente il paesaggio, di ascoltare i suoni che la natura ci offre, di percepire il nostro stesso battito cardiaco. Questa esperienza, per quanto breve, può essere profondamente trasformativa. Ci ricorda che non dobbiamo essere costantemente in movimento per "fare" qualcosa; a volte, il valore più grande risiede nel "non fare" nulla, nel semplice stare.

La stazione di Seiryu Miharashi Eki non è un errore di progettazione o un capriccio. È una filosofia fatta di cemento e acciaio, un'installazione artistica funzionale che ci spinge a riconsiderare il nostro rapporto con il tempo, lo spazio e, in ultima analisi, con noi stessi. In un'epoca in cui siamo perennemente connessi digitalmente, questo luogo offre una disconnessione radicale ma necessaria. Ci invita a spegnere il rumore di fondo delle nostre vite frenetiche e ad ascoltare, forse per la prima volta in molto tempo, la voce della natura e il sussurro della nostra anima.

Seiryu Miharashi Eki è più di una stazione ferroviaria; è un simbolo potente, un monito gentile a fermarsi, a riflettere e a riscoprire la semplice ma profonda bellezza dell'essere, qui e ora. Quanti di noi, nella nostra corsa quotidiana, trovano davvero il tempo per una sosta così essenziale?








sabato 24 maggio 2025

Il mandolino: oltre pizza e tarantelle, un cuore antico che ancora vibra

 


Oltre l'immaginario comune: un viaggio sorprendente nel passato e presente del mandolino, dalle corti barocche ai palchi del rock


Nell'immaginario collettivo, il mandolino evoca immediatamente immagini pittoresche: gondole veneziane, pizzerie affollate e le melodiose note di "O Sole Mio" che risuonano tra i vicoli di Napoli. Certo, il legame con la cultura popolare italiana è innegabile e profondamente radicato, ma ridurre la storia e il potenziale di questo affascinante strumento a soli questi stereotipi sarebbe un'ingiustizia. Il mandolino, infatti, vanta una storia ricca e complessa, che attraversa secoli e continenti, e che ancora oggi si manifesta in modi sorprendentemente diversi, ben oltre le tarantelle.

Le radici del mandolino affondano in tempi antichissimi, ben prima che la pizza conquistasse il mondo. Discendente diretto del liuto medievale e rinascimentale, la sua forma e la sua tecnica si sono evolute attraverso i secoli, dando vita a diverse varianti regionali. Strumento da camera per eccellenza, fu ampiamente utilizzato nel Barocco, apprezzato da compositori del calibro di Antonio Vivaldi, che gli dedicò concerti di rara bellezza (come il celebre Concerto in Do maggiore RV 425 e due concerti per due mandolini e orchestra). La sua voce delicata ma vibrante trovava spazio nei salotti nobiliari, nelle corti reali e nelle accademie musicali.

Il suo prestigio continuò nell'epoca classica: anche Wolfgang Amadeus Mozart lo inserì nella sua opera Don Giovanni (nella famosa serenata di Don Ottavio, "Deh, vieni alla finestra"). E persino il gigante Ludwig van Beethoven non disdegnò il mandolino, dedicandogli ben quattro piccole sonatine, a testimonianza della sua versatilità e della sua capacità di esprimere sentimenti intimi e delicati. Altri compositori illustri come Giovanni Paisiello, Johann Adolf Hasse, Johann Nepomuk Hummel e Johann Hoffmann scrissero opere significative per questo strumento, contribuendo a elevarne lo status nel panorama della musica "colta".

Nei secoli successivi, il mandolino ha continuato a prosperare in tutta Europa. In Italia, certo, ma anche in Germania, Francia e Inghilterra, dove le orchestre di mandolini fiorivano e le scuole di musica ne insegnavano la padronanza. Era uno strumento versatile, capace di esprimere sia la dolcezza della musica da camera che la vivacità delle danze popolari.

Se il mandolino è profondamente legato alla cultura italiana, la sua risonanza è universale. Attraversando l'Atlantico con gli immigrati europei, trovò nuova linfa vitale negli Stati Uniti, dove si integrò perfettamente nelle nascenti tradizioni musicali. Nel profondo Sud, il mandolino divenne un elemento essenziale del blues e del folk americano. La sua sonorità tagliente e percussiva si sposava perfettamente con le esigenze di accompagnamento ritmico e melodia solista, spesso in combinazione con la chitarra e l'armonica. Artisti come Yank Rachell e Howard Armstrong hanno dimostrato la versatilità del mandolino nel blues, infondendogli un'anima cruda e malinconica, ben lontana dalle melodie solari napoletane. Nel contesto del bluegrass, Bill Monroe, considerato il "padre del bluegrass", ha elevato il mandolino a strumento solista di primissimo piano, definendone il suono e il ruolo in questo genere.

E non è tutto. Con l'avvento del rock'n'roll, il mandolino ha trovato un inaspettato palcoscenico. Sebbene non sia uno strumento cardine come la chitarra elettrica, la sua presenza in brani di band iconiche ha dimostrato la sua capacità di aggiungere colore, texture e un tocco distintivo al sound rock. Come dimenticare l'indimenticabile intro di "The Battle of Evermore" dei Led Zeppelin, con la chitarra acustica e il mandolino di Jimmy Page che tessono un'atmosfera magica? Anche i R.E.M. hanno utilizzato il mandolino in brani come "Losing My Religion", conferendogli un timbro malinconico e riconoscibile. Altri artisti di rilievo come Rod Stewart, George Harrison e Bruce Springsteen hanno occasionalmente impreziosito le loro composizioni con le note del mandolino, dimostrandone l'adattabilità e la capacità di arricchire il panorama sonoro del rock.

Oggi, il mandolino continua a vivere e a evolvere. Non è solo uno strumento da concerto o da museo, ma in molte culture, è un compagno quotidiano. Dalle festività tradizionali in Irlanda, dove è parte integrante della musica celtica, alle sessioni di bluegrass negli Stati Uniti, fino alle nuove sperimentazioni di artisti contemporanei, il mandolino è uno strumento vivo. Mandolinisti jazz come David Grisman hanno esplorato le sue potenzialità in un contesto più moderno e improvvisativo, dimostrando la sua versatilità anche in questo genere complesso.

La sua riscoperta può avvenire in modo del tutto inaspettato. Per me, ad esempio, l'avvicinamento a questo strumento affascinante è avvenuto nel 2008, proprio a Savona. In quell'anno, la città ospitò una "Settimana del Mandolino", un'iniziativa del Maestro Carlo Aonzo che culminò con un concerto finale davvero memorabile. Ascoltare la ricchezza timbrica, la precisione e la passione di quegli esecutori dal vivo mi ha aperto gli occhi su un mondo che andava ben oltre le mie preconcezioni. Ha dimostrato che il mandolino è uno strumento di grande profondità, capace di toccare corde emotive diverse e di adattarsi a contesti musicali impensabili.

In alcune comunità, lo si trova ancora nelle case, suonato per il puro piacere di fare musica, per accompagnare canti o semplicemente per divertimento. La sua dimensione compatta lo rende facilmente trasportabile e accessibile, e la sua sonorità brillante e melodica lo rende gratificante da suonare anche per i non professionisti.

Dimentichiamo per un attimo gli stereotipi e apriamoci alla ricchezza del mandolino. È uno strumento che ha attraversato epoche e generazioni, adattandosi, reinventandosi e dimostrando una resilienza straordinaria. Dal Barocco al blues, dalla musica classica al rock, la sua voce ha continuato a vibrare, raccontando storie di popoli, passioni e cambiamenti. La prossima volta che sentirete il suono di un mandolino, andate oltre l'immagine scontata: ascoltate la sua storia antica, la sua anima blues, il suo cuore rock e la sua vibrazione universale che ancora oggi ci affascina.





venerdì 23 maggio 2025

Tifo (soprattutto calcistico): amore cieco, odio sincero, vittoria assoluta



Tifo: amore viscerale, egoismo, interesse selettivo e sete di vittoria


C'è qualcosa di profondamente radicato nell'anima umana che si risveglia al canto di uno stadio, al fruscio di una bandiera, al nome di una squadra di calcio. Diventiamo tifosi, spesso in tenera età, quasi per osmosi familiare o per un'attrazione inspiegabile verso quei colori, quel simbolo. Non c'è un manuale, un corso di laurea per apprendere l'arte del tifo. Semplicemente accade. E, stranamente, questa passione sembra limitata ai nostri confini domestici, incapace di estendersi a gioire pienamente per i successi "altrui", persino quando vestono la maglia della nostra nazione contro avversari stranieri. Una sorta di egoismo sportivo che antepone il proprio orticello emotivo al bene collettivo calcistico. Un egoismo che, quando si tratta della propria squadra, si tramuta in un'unica, ossessiva priorità: la vittoria, a prescindere dallo spettacolo.

È un legame strano, viscerale. Cambiamo partner, a volte persino le nostre convinzioni religiose o politiche, pilastri fondamentali della nostra identità. Ma la squadra del cuore resta un faro incrollabile nella tempesta delle nostre esistenze. Un amore che resiste a sconfitte cocenti, a periodi bui, a giocatori che vanno e vengono. È un patto silente stretto in un momento imprecisato, un vincolo che pare inciso nel nostro DNA emotivo. Un affetto tenace che, per molti, si mantiene vivo anche quando l'interesse per il calcio in generale si affievolisce, lasciando spazio solo alla passione per la propria squadra e, forse, al piacere diretto di scendere in campo. Un amore talmente radicato da trascendere la bellezza del gioco stesso: ciò che conta è il risultato finale, quel misero 1-0 che sancisce la superiorità, anche se ottenuta con un pizzico di fortuna o con una prestazione tutt'altro che memorabile.

Eppure, questo amore incondizionato per i propri colori può paradossalmente generare un sentimento opposto, un'avversione talvolta intensa e irrazionale verso chi supporta la squadra rivale. Persone che nella vita di tutti i giorni si distinguono per la loro moderazione, per la loro capacità di ascolto e di dialogo, si ritrovano improvvisamente animate da un'ostilità palpabile nei confronti dei "nemici" calcistici.

Come è possibile questa metamorfosi? Come può un gioco, pur carico di passione e competizione, scatenare un odio così profondo anche in individui equilibrati?

La risposta affonda, forse, le radici nel complesso meccanismo dell'appartenenza di gruppo. Il tifo ci lega a una comunità, ci fa sentire parte di qualcosa di più grande. La squadra diventa un simbolo della nostra città, della nostra storia, persino di una parte del nostro senso personale. In questo contesto, la squadra avversaria non è solo un competitor sportivo, ma rappresenta "l'altro", colui che minaccia il nostro legame collettivo, che si pone come ostacolo al nostro desiderio di affermazione e di vittoria.

La competizione sportiva, con la sua polarizzazione tra vincitori e vinti, acuisce questa dinamica del "noi" contro "loro". La sconfitta della nostra squadra viene percepita quasi come una ferita personale, un affronto al nostro senso di appartenenza. E l'oggetto di questa frustrazione, di questo dispiacere, diventa inevitabilmente la squadra che ha inflitto la "sofferenza".

Anche le rivalità storiche, spesso alimentate da campanilismi, da episodi controversi o da una lunga tradizione di sfide al vertice, contribuiscono a sedimentare un sentimento di ostilità che travalica la semplice competizione sportiva. Diventa quasi un imperativo morale schierarsi, difendere i propri colori con ardore, e di conseguenza, "detestare" sportivamente l'avversario.

È un paradosso affascinante e a volte inquietante. Il calcio, nato come un gioco, si trasforma in un potente catalizzatore di emozioni, capace di unire folle oceaniche sotto un'unica bandiera ma anche di erigere muri invisibili tra persone altrimenti pacifiche. Comprendere le dinamiche psicologiche e sociali che sottendono a questo fenomeno è fondamentale per vivere la passione sportiva in modo più consapevole e costruttivo, senza cedere a derive di odio e violenza che nulla hanno a che vedere con la bellezza del gioco. Perché, in fondo, al di là dei colori e delle rivalità, resta la comune umanità e il rispetto per l'altro, valori che dovrebbero sempre prevalere, anche sul terreno di gioco. E, forse, riscoprire il piacere puro del gioco, come quando si scende in campo in prima persona, al di là delle bandiere e degli schieramenti, o accettare che, per la propria squadra, anche una vittoria risicata e sofferta ha un sapore dolce e appagante.

Facile esercizio nel momento della riflessione casalinga, molto più complicato da realizzare quando l'arbitro fischia!






giovedì 22 maggio 2025

Decifrare il codice dell'ispirazione: l'elegante semplicità del “Golden Circle”

 



ll segreto dell'ispirazione? Simon Sinek svela come comunicare dal tuo Perché trasforma il Cosa e il Come


Nel mio percorso di esplorazione dei modelli comunicativi che plasmano il successo e l'influenza, mi sono imbattuto in una struttura concettuale di una purezza disarmante: il "Circolo d'Oro" di Simon Sinek.

Questa teoria, presentata con chiarezza e forza persuasiva, offre una lente potente attraverso cui analizzare come alcune organizzazioni e alcuni leader riescano a catalizzare l'attenzione e la lealtà, mentre altri, pur validi, rimangono in una zona d'ombra comunicativa.

Il modello si articola attorno a tre domande fondamentali, disposte in cerchi concentrici: Cosa facciamo, Come lo facciamo e, al cuore di tutto, Perché lo facciamo.

Il cerchio più esterno, il "Cosa", rappresenta la manifestazione tangibile della nostra attività: i prodotti che offriamo, i servizi che eroghiamo, le funzioni che svolgiamo. È la descrizione più immediata e superficiale di ciò che siamo o facciamo.

Il cerchio intermedio, il "Come", delinea i nostri processi distintivi, le metodologie che impieghiamo, i fattori che ci rendono unici nel modo in cui realizziamo il nostro "Cosa". Spiega le azioni concrete che intraprendiamo.

Ma è nel cerchio più interno, nel "Perché", che risiede la vera chiave di volta. Questo non si riferisce a un obiettivo di profitto o a una semplice descrizione della funzione aziendale. Il "Perché" incarna la nostra ragione d'essere più profonda, la convinzione che anima le nostre azioni, lo scopo ultimo che ci spinge. Risponde alla domanda fondamentale sul motivo per cui la nostra organizzazione esiste al di là del semplice guadagno.

L'analisi dei modelli comunicativi di aziende di successo ha rivelato un pattern sorprendente: la loro comunicazione procede dall'interno verso l'esterno. Iniziano esprimendo il loro "Perché", la loro missione e i loro valori fondamentali. Successivamente, descrivono il "Come" realizzano la loro visione, i processi e i principi che guidano le loro azioni. Infine, presentano il "Cosa", i prodotti o i servizi che sono la naturale conseguenza del loro "Perché" e del loro "Come".

Questo approccio contrasta nettamente con la comunicazione più tradizionale, che procede dall'esterno verso l'interno, focalizzandosi primariamente sul "Cosa" e, talvolta, accennando al "Come", raramente esplorando il "Perché" in modo significativo.

L'efficacia della comunicazione "dal Perché" risiede nella sua capacità di connettersi con la parte del cervello umano responsabile delle emozioni, della fiducia e del processo decisionale intuitivo. Quando un messaggio inizia con la ragione d'essere, con la convinzione profonda, esso non si limita a informare, ma risuona con chi condivide quei valori, creando un legame più forte e duraturo.

Ho osservato come aziende che comunicano il loro "Perché" non vendono semplicemente prodotti o servizi; ispirano movimenti, creano comunità di sostenitori e attraggono talenti che condividono la loro visione del mondo. La chiarezza del "Perché" funge da faro, guidando le decisioni interne e allineando l'intera organizzazione verso un obiettivo comune.

La scoperta del “Golden Circle”, attraverso lo studio dei modelli comunicativi efficaci, ha rappresentato per me un momento di illuminazione. Ha offerto una spiegazione semplice ma potente del perché alcune narrazioni catturano l'immaginazione e spingono all'azione, mentre altre si dissolvono nel rumore di fondo. Comprendere e applicare i principi del Circolo d'Oro non è solo una strategia comunicativa; è un modo per connettersi a un livello più profondo con il proprio pubblico e per costruire un'influenza autentica e duratura.

La vera sfida, quindi, non risiede tanto nel definire il "Cosa" o il "Come", quanto nello scavare in profondità per portare alla luce il proprio "Perché". Questa ricerca interiore è il primo passo fondamentale per decifrare il codice dell'ispirazione e per comunicare con un impatto che va ben oltre la semplice trasmissione di informazioni.








mercoledì 21 maggio 2025

1969: l'anno in cui la luna sbarcò a Woodstock (e altre storie inquietanti)

 


L'incontro di ieri all'Uni 3 di Genova, stimolato dall'invito di Riccardo Storti, docente titolare del corso dedicato al rock, ha riacceso in me la fiamma di un anno che continua a interrogarmi e affascinarmi: il 1 969. Per un tredicenne come ero io all'epoca, quel periodo fu un turbine di scoperte, un'esplosione di eventi che avrebbero plasmato il mondo e la mia stessa percezione di esso. Dalle immagini sgranate di un uomo che calpestava la Luna al richiamo assordante di Woodstock, era un anno di sogni audaci e, a volte, di bruschi risvegli. Questo articolo è un viaggio in quel 1969, un tentativo di esplorare le connessioni, a volte palesi, a volte bizzarre, tra eventi apparentemente distanti ma profondamente intrecciati nel tessuto di un'epoca irripetibile.


L'anno 1969. Per un tredicenne come me, che iniziava ad affacciarsi sul mondo con quella curiosità famelica e quell'intensità emotiva tipiche dell'adolescenza, fu un periodo di scoperte folgoranti. Ricordo ancora le immagini sgranate, quasi irreali, in bianco e nero della televisione: un uomo che camminava sulla Luna. Sembrava fantascienza, un'impresa titanica che proiettava l'umanità in una dimensione completamente nuova. Allo stesso tempo, un altro tipo di vibrazione, più terrestre e assordante, iniziava a farsi strada attraverso i media: il richiamo di un festival chiamato Woodstock. Confesso che all'epoca, pur affascinato, ne capivo solo in parte la portata dirompente di libertà e ribellione.

Poi, con il passare degli anni, quella scintilla di interesse per il '69 è divampata in una vera e propria passione. Ho esplorato a fondo quel periodo dirompente, leggendo, ascoltando, cercando di afferrare ogni sfumatura di quell'anno cruciale. Quella ricerca mi ha portato, infine, a dedicare un intero libro all'epopea di Woodstock, cercando di catturare non solo la cronaca degli eventi, ma soprattutto lo spirito, le speranze e le profonde contraddizioni di quella straordinaria adunata. E, in questo lungo percorso di studio, ho iniziato a percepire una strana, quasi bizzarra, sensazione di connessioni sotterranee tra eventi apparentemente scollegati.

Mentre Neil Armstrong pronunciava quelle parole destinate a scolpirsi per sempre nella storia, "un piccolo passo per un uomo, un gigantesco balzo per l'umanità", un'eco sottile di quell'impresa titanica risuonava ben oltre la superficie lunare. Era l'eco di un'ambizione umana senza precedenti, la dimostrazione che i limiti potevano essere infranti, che i sogni più audaci potevano, in qualche modo, concretizzarsi. E sulla Terra, quell'eco trovava un terreno fertile in un'epoca di febbrile fermento sociale e culturale.

Ad agosto, le colline di Bethel, New York, si trasformarono in un alveare umano, pulsante di musica, colori e un'illusione – forse ingenua, ma potentissima – di fratellanza universale. Woodstock. Un nome che ancora oggi evoca un'immagine di pace, amore e armonia. Un'utopia effimera, certo, ma un'utopia che per alcuni giorni sembrò incredibilmente reale. Nel mio libro, ho cercato di esplorare le molteplici sfaccettature di quell'evento: la sua carica rivoluzionaria, il suo impatto culturale e, inevitabilmente, le sue intrinseche fragilità.

Perché, come spesso accade, l'ombra non tardò a farsi sentire. Solo pochi mesi dopo, al circuito di Altamont, quella stessa energia giovanile si trasformò in qualcosa di oscuro e violento. La tragica morte di Meredith Hunter, nel corso di un concerto dei Rolling Stones, divenne un simbolo brutale, la smentita cruda e dolorosa di un sogno di armonia. Ripensandoci oggi, forte della mia prospettiva di studioso di quel periodo, non posso fare a meno di vedere in Altamont una sorta di "anti-Woodstock", la manifestazione di quelle tensioni sotterranee che serpeggiavano in una società in rapida trasformazione.

E poi c'è quell'altro agosto, quello segnato dall'orrore nella villa di Bel Air. La strage perpetrata dalla "famiglia" Manson, con la sua efferata brutalità, sembrava provenire da un'altra dimensione, un'irruzione di caos primordiale nel cuore del sogno americano. All'apparenza, non aveva nulla a che fare con la musica o la corsa allo spazio. Eppure, se ci sforziamo di adottare una prospettiva meno ortodossa, non possiamo ignorare come anche quella violenza insensata possa essere interpretata come un sintomo di un'epoca inquieta, un'eruzione di un disagio profondo che covava sotto la superficie patinata del sogno americano.

Mentre tutto questo accadeva, un'altra rivoluzione, silenziosa eppure di portata epocale, stava muovendo i suoi primi passi: la nascita di Arpanet, l'antenato di Internet. Quasi in contemporanea, i Beatles, il gruppo che aveva incarnato lo spirito e i sogni di un'intera generazione, davano il loro ultimo, leggendario concerto improvvisato sul tetto della Apple Corps a Londra. Questa giustapposizione mi ha sempre colpito: la fine di un'era analogica, fatta di suoni condivisi, di presenze fisiche e di un'identità collettiva creata attorno a idoli rock, e l'alba di un mondo digitale, di connessioni impalpabili e potenzialmente infinite.

Nel corso della mia indagine, e ora ripensandoci con la consapevolezza di chi ha cercato di decifrare quel periodo attraverso la scrittura, mi chiedo ancora: qual è il filo sottile che lega questi eventi così diversi? Forse è la stessa febbrile ansia di cambiamento, la sensazione che il mondo stesse correndo a una velocità mai vista prima, aprendo nuove frontiere ma anche rivelando abissi inattesi. Il 1969 fu un anno di eccessi, di speranze sconfinate e di bruschi risvegli.

E allora, perché non abbandonarci a un'ipotesi più bizzarra? Immaginare che le vibrazioni sonore sprigionate dalla folla oceanica di Woodstock abbiano creato delle interferenze inattese con i primissimi segnali di Arpanet, generando delle piccole anomalie che, in qualche modo, abbiano potuto contribuire a destabilizzare un equilibrio sociale già precario, fino a culminare nella follia di Bel Air. O, ancora, fantasticare che l'energia emotiva sprigionata dall'ultimo concerto dei Beatles abbia viaggiato nell'etere, influenzando, chissà come, le decisioni degli astronauti sulla Luna, o magari, in una chiave più inquietante, risuonando con le oscure pulsioni che animavano le menti deviate della famiglia Manson.

So bene che queste sono solo suggestioni, voli pindarici al di là della razionalità storica. Ma credo che il fascino del 1969 risieda proprio in questa sua capacità di evocare connessioni inattese, di spingerci a cercare un significato più profondo in un arazzo di eventi tanto iconici quanto, a prima vista, distanti tra loro. Un anno che, nella mia memoria di tredicenne e nella mia successiva attività di studioso e scrittore, rimane un enigma affascinante, un nodo cruciale nella storia del nostro tempo, intriso di sogni, speranze e ombre che continuano a interrogarci.






martedì 20 maggio 2025

La chioma ribelle: dall'Inghilterra all'Italia, storie e significati dei primi "Capelloni"



Dai Beatles ai sogni di libertà: come la chioma lunga divenne il simbolo di una generazione che sfidava il conformismo, dall'Inghilterra all'Italia


Negli annali della storia sociale e culturale, l'emergere dei "capelloni" negli anni '60 e '70 rappresenta una cesura visibile e potente con il passato. Questo fenomeno, con le sue radici saldamente piantate nel fertile terreno della controcultura inglese, si propagò rapidamente, trovando terreno fertile anche in Italia, dove assunse sfumature e dinamiche proprie. Più di una semplice moda, la scelta di portare i capelli lunghi da parte di una generazione di giovani incarnava un complesso intreccio di ribellione, ricerca di identità, afflato di libertà e contestazione delle norme consolidate. In un'epoca di profonde trasformazioni, la chioma fluente divenne un manifesto silenzioso, un segno distintivo che separava una nuova ondata di pensiero dalle convenzioni borghesi e dai rigidi canoni estetici del dopoguerra.

Il fermento culturale degli anni '60 trovò in Inghilterra uno dei suoi epicentri. La Swinging London, con la sua esplosione di musica, moda e nuove idee, fu il palcoscenico su cui nacque e si diffuse l'immagine del giovane dai capelli lunghi. Gruppi musicali iconici come i Beatles e i Rolling Stones, con le loro chiome sempre più lunghe e il loro atteggiamento anticonformista, divennero involontari portabandiera di questo nuovo stile. La loro musica, carica di energia e di messaggi di cambiamento, risuonava con una generazione che si sentiva distante dai valori tradizionali. I capelli lunghi, in questo contesto, non erano solo un vezzo estetico, ma un simbolo di appartenenza a una cultura giovanile in piena affermazione, che sfidava l'establishment con la propria creatività e il proprio desiderio di libertà espressiva.

Il boom economico aveva portato con sé un inedito senso di benessere per una parte della popolazione occidentale, ma al contempo aveva acuito le distanze tra le generazioni. I giovani, cresciuti in un clima di relativa prosperità, iniziavano a mettere in discussione i valori dei padri, spesso legati al sacrificio, all'autorità e a un conformismo percepito come soffocante. In questo contesto, l'aspetto esteriore divenne un campo di battaglia simbolico. Abbandonare i tagli corti e disciplinati, simbolo di ordine e rispettabilità, significava abbracciare una nuova estetica che rifletteva un'aspirazione a una vita più autentica e meno vincolata.

L'onda lunga della controcultura britannica non tardò a raggiungere l'Italia. Sebbene con un certo ritardo e con specificità legate al contesto sociale e politico italiano, anche qui i capelli lunghi fecero la loro comparsa come segno di una generazione in trasformazione. I giovani italiani, influenzati dalla musica beat e rock proveniente dall'Inghilterra, iniziarono ad adottare uno stile di vita e un'estetica che riflettevano il desiderio di emulazione ma anche una propria ricerca di identità. I "capelloni" italiani, pur condividendo con i loro omologhi inglesi il rifiuto delle convenzioni e l'aspirazione alla libertà, si trovarono a confrontarsi con una società ancora più tradizionalista e con dinamiche politiche interne peculiari, segnate dalle tensioni del periodo storico.

La reazione della società "benpensante" non tardò ad arrivare, sia in Inghilterra che in Italia. I "capelloni" furono spesso oggetto di derisione, discriminazione e persino violenza. Venivano etichettati come pigri, sporchi, drogati e sovversivi. Trovare lavoro o essere accettati in determinati contesti sociali diventava una sfida. La lunghezza dei capelli era vista come un affronto all'autorità, un segno di negligenza e di scarsa serietà. Le cronache dell'epoca sono ricche di episodi di contestazioni, spesso sfociate in scontri, tra giovani dai capelli lunghi e forze dell'ordine o gruppi più conservatori in entrambi i paesi.

Tuttavia, nonostante le difficoltà e le resistenze, il fenomeno dei "capelloni" continuò a crescere, influenzando profondamente la cultura popolare sia in Inghilterra che in Italia. La musica rock, con le sue icone dai capelli lunghi e ribelli, divenne la colonna sonora di questa trasformazione a livello globale. Artisti britannici come i già citati Beatles e Rolling Stones, insieme a molti altri, contribuirono a sdoganare un'immagine che da simbolo di marginalità si trasformò gradualmente in un tratto distintivo di una generazione in fermento, influenzando anche la scena musicale e culturale italiana.

Con il passare del tempo, la "dura vita dei primi capelloni" lasciò il segno in entrambi i paesi. Le barriere sociali iniziarono a farsi meno rigide, e ciò che un tempo era considerato un atto di ribellione divenne una scelta estetica più comune, seppur mantenendo spesso una sottile aura di anticonformismo. La lezione più importante che ci lasciano questi pionieri dalla chioma ribelle, sia in Inghilterra che in Italia, è la forza di un gesto simbolico nel veicolare un cambiamento culturale, dimostrando come anche l'apparenza possa farsi portavoce di un desiderio profondo di libertà e di un mondo diverso. La loro "dura vita" ha contribuito in modo significativo a plasmare la società più aperta e tollerante in cui viviamo oggi, con radici profonde nel fermento culturale inglese e una fioritura specifica nel contesto italiano.








lunedì 19 maggio 2025

Patchouli: l'aroma ribelle degli anni '70

 


L'aroma della libertà: sulle tracce del patchouli che, negli anni '70, guidava ai concerti e diventava l'essenza di un'epoca

 

Negli annali della storia olfattiva, pochi profumi evocano un'epoca con la stessa immediatezza e potenza del patchouli negli anni '70. Più di una semplice fragranza, divenne un vero e proprio manifesto olfattivo di una generazione in fermento, un aroma indissolubilmente legato alla trasgressione, alla libertà e alla eccitante colonna sonora di quel decennio rivoluzionario.

Immaginatevi un concerto rock assordante, l'odore acre del fumo che si mescola al calore della folla, e nell'aria, inconfondibile, la nota terrosa, legnosa e vagamente dolce del patchouli. Non era un caso. Per la generazione hippie e per chiunque abbracciasse gli ideali di controcultura, il patchouli rappresentava una netta rottura con le convenzioni olfattive del passato. Le fragranze floreali e sofisticate cedevano il passo a un profumo che sapeva di terra, di radici, di un ritorno a un'autenticità percepita come perduta.

Questo legame con la natura non era casuale. Gli anni '70 furono un periodo di crescente interesse per la spiritualità orientale e per uno stile di vita più in armonia con il pianeta. Il patchouli, con le sue origini esotiche – proveniente dalle lussureggianti terre dell'Asia – portava con sé un'eco di viaggi lontani, di misticismo e di un desiderio di esplorazione, sia fisica che interiore. Il suo profumo intenso e persistente si sposava perfettamente con l'immaginario di terre incontaminate e saggezze antiche.

Ma il patchouli era anche un simbolo di libertà individuale e sessuale. Il suo aroma deciso e avvolgente non conosceva distinzioni di genere: uomini e donne lo indossavano con la stessa disinvoltura, sfidando le rigide categorizzazioni anche nel campo dei profumi. Era un modo per esprimere una sensualità libera e non convenzionale, un invito all'apertura mentale e all'abbattimento delle barriere.

E poi c'era la musica, l'anima pulsante degli anni '70. Dai ritmi psichedelici di Jimi Hendrix alle ballate folk di Joni Mitchell, dal rock graffiante dei Led Zeppelin alle sperimentazioni di Frank Zappa, il patchouli era l'aroma che fluttuava nell'aria dei festival leggendari come Woodstock, nei club fumosi e nei raduni improvvisati. Si mescolava all'odore pungente dell'erba, al fumo denso degli incensi, creando un'atmosfera olfattiva unica e indimenticabile, parte integrante dell'esperienza sonora e visiva di quegli anni.

Ricordo distintamente, nei primi anni '70, quando ancora adolescente mi avvicinavo ai luoghi dei concerti. Già da lontano, prima ancora di sentire le prime note distorte di una chitarra o il ritmo incalzante di una batteria, una scia inconfondibile mi guidava: era il profumo intenso del patchouli. Sapevi, seguendo quella fragranza un po' "selvaggia", che lì avresti trovato i ragazzi con i loro jeans sbiaditi, le camicie a fiori e i lunghi capelli, pronti a condividere musica e ideali. Sempre le stesse facce! Quel profumo non era solo un accessorio, ma un vero e proprio segnale, parte integrante del "costume" di quel momento, un modo per riconoscersi e sentirsi parte di qualcosa di più grande.

La persistenza tenace del patchouli sui tessuti – spesso importati dall'India e decorati con colori vivaci e motivi paisley – contribuiva a diffondere ulteriormente il suo messaggio. I vestiti intrisi di quest'essenza diventavano quasi dei manifesti ambulanti di un'identità alternativa, un modo silenzioso ma potente per comunicare i propri ideali e la propria appartenenza a una comunità che rifiutava le norme consolidate.

Ancora oggi, annusare il patchouli può essere come aprire una finestra spazio-temporale sugli anni '70. Evoca immediatamente un'epoca di passione, di ribellione pacifica e di una fervente ricerca di autenticità. Lungi dall'essere una semplice moda olfattiva, il patchouli fu l'aroma di una rivoluzione culturale, un profumo che ha lasciato un'impronta indelebile nella storia del costume e nella memoria collettiva. Un vero e proprio "odore del cambiamento" che continua a risuonare, sottilmente, anche nel nostro presente.







domenica 18 maggio 2025

L'abbraccio silenzioso: quando lo strumento diventa estensione dell'anima

 



Oltre il suono: la magia sensoriale del primo strumento

Dalla carezza del legno all'odore resinoso, un'esplorazione del piacere fisico che precede la melodia e crea un legame indissolubile


C'è qualcosa di profondamente intimo nel primo incontro con uno strumento musicale. Non è solo un oggetto inanimato; possiede una promessa, un potenziale sonoro che vibra ancora prima che le dita lo sfiorino. Prendiamo una chitarra, ad esempio. La curva sinuosa del suo corpo cattura lo sguardo, la liscia setosità del legno accarezza il palmo della mano, il freddo rassicurante delle meccaniche pronte a essere accordate suscita una quieta ammirazione. È un dialogo silenzioso che inizia nel momento in cui la bellezza dello strumento colpisce la vista, generando un senso di stupore.

La luce che danza sulle venature del legno massello racconta storie di foreste lontane, di mani sapienti che lo hanno plasmato. L'odore, a volte leggermente resinoso, altre volte caldo e avvolgente, inebria l'olfatto e parla di vita, di crescita, di un artigianato antico che si perpetua. Prima ancora di pizzicare una corda, il corpo risponde a queste sensazioni con un fremito sottile, un'anticipazione quasi fisica del suono che sta per nascere. Il mogano, l’acero, il palissandro…

Poi arriva il tocco. Le dita che si muovono lungo il manico, sentendo la leggera resistenza delle corde, la morbidezza del tasto sotto i polpastrelli. Ogni curva, ogni spigolo smussato, ogni dettaglio costruttivo trasmette una sensazione unica. È un'esplorazione tattile che risveglia un senso di connessione primordiale. Si percepisce la vibrazione potenziale, l'eco silenzioso di melodie ancora non suonate.

Non è semplice ammirazione estetica; è un coinvolgimento sensoriale completo. La bellezza dello strumento non si limita alla vista, ma pervade anche l'olfatto e il tatto, creando un'esperienza sinestetica di stupore. È come toccare la tela di un pittore prima che il pennello la colori, sentire la consistenza della creta nelle mani dello scultore prima che prenda forma. Lo strumento musicale, nella sua fisicità, è la promessa di un'esperienza emotiva, un portale verso un universo sonoro che aspetta solo di essere schiuso. Basti pensare a come alcune rock star, innamorate del proprio strumento fin dal primo giorno, un tempo arrivavano a comprare un biglietto aereo anche per la loro chitarra, quasi fosse un membro della band a tutti gli effetti. E non è raro che questi artisti continuino a utilizzare o a conservare gelosamente il primo strumento acquistato, testimone silenzioso di un legame indissolubile.

Questo piacere quasi fisico non svanisce con l'uso. Anzi, si intensifica. Ogni graffio, ogni piccola imperfezione diventa un segno del tempo condiviso, una cicatrice che racconta una storia musicale personale. La familiarità con il peso dello strumento tra le braccia, la posizione naturale delle mani, tutto contribuisce a creare un legame che va oltre la semplice funzionalità. Lo strumento diventa un'estensione del corpo, un tramite attraverso il quale l'anima può esprimersi.

E quando finalmente le dita pizzicano le corde, quando l'aria vibra e il suono si propaga, quel piacere fisico si trasforma in un'emozione ancora più profonda. La vibrazione che si propaga attraverso il legno e si sente risuonare contro il corpo è la materializzazione di un'idea, di un sentimento. In quel preciso istante, lo strumento non è più solo un oggetto; è un compagno, un confidente, un veicolo di pura gioia sensoriale ed emotiva.

Questo è solo un piccolo assaggio. Potremmo esplorare come diversi materiali (legno, metallo, plastica) offrano sensazioni tattili differenti, come il design di uno strumento influenzi il nostro rapporto fisico con esso, e come questo piacere sensoriale si traduca in una connessione più profonda con la musica stessa.