Sono arrabbiato. Profondamente deluso
nell'ascoltare la superficialità disarmante di chi, in queste ore, riempie
televisioni e piazze con proclami sulla sicurezza sul lavoro. Parole vuote,
spesso lontane anni luce dalla vera complessità del problema, dalle sue
dinamiche nascoste, dai suoi sviluppi segreti che solo chi ha vissuto da dentro, per decenni, conosce davvero…
Perché parlo in questi termini? Perché, da metà anni’90, ho
visto un sistema della sicurezza nascere, muovere i primi incerti passi con la
vecchia legge 626, proliferare fino all'attuale D.Lgs. 81/2008. Ho vissuto
sulla mia pelle le resistenze, le timidezze, i piccoli e grandi passi avanti. E
proprio per questo, con la forza di chi ha osservato l'evoluzione da una
posizione privilegiata, cioè dall’interno, affermo con cognizione di causa di
conoscere esattamente quali siano le linee guida per affrontare seriamente
questa piaga.
Veniamo al quotidiano.
Oggi, primo maggio, si celebra, tra le altre cose, la Festa dei Lavoratori, e puntualmente torna al centro del dibattito la sacrosanta questione della sicurezza sul lavoro. Proprio ieri, 30 aprile, sono stati annunciati stanziamenti di nuovi fondi, un segnale doveroso, certo, ma che rischia di perdersi in un labirinto burocratico se non accompagnato da una visione radicalmente diversa.
Chi scrive ha vissuto l'evoluzione della normativa sulla sicurezza fin dalla "preistoria", lavorando in contesti multinazionali e toccando successivamente con mano la realtà, spesso ben più complessa, delle piccole e medie imprese e del mondo artigianale. E l'esperienza, purtroppo, mi dice che concentrarsi unicamente sulla proliferazione di leggi e sull'aumento degli ispettori è come curare un sintomo ignorando la causa della malattia.
La vera sfida, la strada maestra – lunga e impervia, stimabile temporalmente in una generazione – è la creazione di una cultura della sicurezza. Parliamo di quel cambio di mentalità che trasforma le norme da imposizioni esterne a convinzioni intime, a gesti quotidiani e ovvi, come indossare il casco in moto, un tempo contestato e oggi prassi consolidata, almeno nel consesso civile.
Ma come si crea, concretamente, questa tanto agognata cultura
della sicurezza? Non certo con proclami altisonanti o sterili adempimenti
burocratici. La risposta, per quanto possa apparire semplice, risiede in una
costellazione di micro-azioni quotidiane. Penso a quelle brevi riunioni
informali, magari in piedi, prima di iniziare un'attività, per focalizzare
l'attenzione sui potenziali rischi. Immagino le osservazioni acute, quasi
sussurrate, captate anche mentre si sorseggia un caffè alla macchinetta o
durante un trasferimento in auto, trasformando ogni momento in un'opportunità
per rafforzare la consapevolezza.
È un lavoro giorno dopo giorno, con una costanza che a volte
può sembrare noiosa, ripetitiva. Ma è proprio in questa perseveranza, in questo
non abbattersi di fronte ai fisiologici insuccessi o alle resistenze iniziali,
che si cela la chiave. La sicurezza deve diventare un argomento di primaria
importanza, non un fastidioso orpello, ma un pilastro fondamentale, discusso
con la stessa serietà e frequenza dei risultati di vendita o degli obiettivi di
produzione. Deve sedersi allo stesso tavolo degli altri 'topics' aziendali, con
pari dignità e attenzione.
Ma qui sorge il primo, enorme ostacolo: i datori di lavoro.
Troppo spesso ho incontrato la resistenza di chi dovrebbe essere
il primo a dare l'esempio. "Perdita di tempo e denaro", sentivo
ripetere, quasi la sicurezza fosse un capriccio e non un investimento
lungimirante, con un ritorno economico spesso sottovalutato. E anche quando,
magari spinti da finanziamenti pubblici, si investe in sicurezza, alla prima
sirena della "produzione a tutti i costi" ecco spuntare il suggerimento
velenoso di allentare le protezioni, per "fare più in fretta".
Mentre politici e sindacalisti si preparano a manifestare, mi chiedo quanti di loro abbiano realmente contezza di cosa significhi costruire aziende veramente sicure, non sulla carta, ma nella prassi quotidiana. Dove sono i "consiglieri" seri, quelli che hanno masticato polvere e imprevisti nei luoghi di lavoro per decenni? Non mi considero un luminare, ma forte di un'esperienza copsicua, so per certo quali leve azionare, quali resistenze affrontare.
Forse è il momento di porre qualche domanda scomoda:
Quanti dei fondi stanziati saranno realmente destinati alla
formazione vera, quella che entra nel profondo e cambia le coscienze, e quanta
si perderà in rivoli burocratici e adempimenti formali?
Come si intende incentivare concretamente i datori di lavoro
virtuosi, quelli che vedono la sicurezza non come un costo ma come un valore
aggiunto, un elemento di competitività?
Quali meccanismi concreti si metteranno in campo per
scardinare quella mentalità miope che sacrifica la sicurezza sull'altare della
fretta e del profitto immediato?
E soprattutto, chi ascolterà la voce di chi, come me e tanti
altri, ha vissuto sulla propria pelle le sfide della sicurezza e ha maturato
una visione pragmatica e non ideologica?
È facile riempire le piazze e promettere mari e monti. Molto più arduo è intraprendere quel cammino paziente e tenace verso una vera cultura della sicurezza, un percorso che inizia nelle aule di formazione, si consolida con l'esempio dei vertici aziendali e si radica nella consapevolezza di ogni singolo lavoratore.
Spero che questo 1° maggio non sia solo una sterile parata di buone intenzioni, ma l'inizio di una riflessione seria e profonda. Perché le leggi sono necessarie, i controlli indispensabili, ma senza un cambio di mentalità radicale, continueremo a contare, tristemente, le vittime di una guerra silenziosa e inaccettabile. E questo, nel 2025, è una sconfitta per tutti.
RICORDA: La sicurezza nei luoghi di lavoro non conosce
"arrivo" o "obiettivo" definitivo. È una responsabilità che
va esercitata quotidianamente e preservata nel tempo, come un'attività
ininterrotta di miglioramento e vigilanza.
A disposizione per qualsiasi chiarimento per spiegare tutto quanto non si può scrivere in un articolo!
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