L'incontro di ieri all'Uni 3 di
Genova, stimolato dall'invito di Riccardo Storti, docente titolare del corso dedicato
al rock, ha riacceso in me la fiamma di un anno che continua a interrogarmi e
affascinarmi: il 1 969. Per un tredicenne come ero io all'epoca, quel periodo fu
un turbine di scoperte, un'esplosione di eventi che avrebbero plasmato il mondo
e la mia stessa percezione di esso. Dalle immagini sgranate di un uomo che
calpestava la Luna al richiamo assordante di Woodstock, era un anno di sogni
audaci e, a volte, di bruschi risvegli. Questo articolo è un viaggio in quel
1969, un tentativo di esplorare le connessioni, a volte palesi, a volte
bizzarre, tra eventi apparentemente distanti ma profondamente intrecciati nel
tessuto di un'epoca irripetibile.
L'anno 1969. Per un
tredicenne come me, che iniziava ad affacciarsi sul mondo con quella curiosità
famelica e quell'intensità emotiva tipiche dell'adolescenza, fu un periodo di
scoperte folgoranti. Ricordo ancora le immagini sgranate, quasi irreali, in
bianco e nero della televisione: un uomo che camminava sulla Luna. Sembrava
fantascienza, un'impresa titanica che proiettava l'umanità in una dimensione
completamente nuova. Allo stesso tempo, un altro tipo di vibrazione, più
terrestre e assordante, iniziava a farsi strada attraverso i media: il richiamo
di un festival chiamato Woodstock.
Confesso che all'epoca, pur affascinato, ne capivo solo in parte la portata
dirompente di libertà e ribellione.
Poi, con il passare degli anni, quella scintilla di interesse
per il '69 è divampata in una vera e propria passione. Ho esplorato a fondo
quel periodo dirompente, leggendo, ascoltando, cercando di afferrare ogni
sfumatura di quell'anno cruciale. Quella ricerca mi ha portato, infine, a
dedicare un intero libro all'epopea di Woodstock, cercando di catturare non
solo la cronaca degli eventi, ma soprattutto lo spirito, le speranze e le
profonde contraddizioni di quella straordinaria adunata. E, in questo lungo
percorso di studio, ho iniziato a percepire una strana, quasi bizzarra,
sensazione di connessioni sotterranee tra eventi apparentemente scollegati.
Mentre Neil Armstrong pronunciava quelle parole
destinate a scolpirsi per sempre nella storia, "un piccolo passo per un
uomo, un gigantesco balzo per l'umanità", un'eco sottile di
quell'impresa titanica risuonava ben oltre la superficie lunare. Era l'eco di
un'ambizione umana senza precedenti, la dimostrazione che i limiti potevano
essere infranti, che i sogni più audaci potevano, in qualche modo, concretizzarsi.
E sulla Terra, quell'eco trovava un terreno fertile in un'epoca di febbrile
fermento sociale e culturale.
Ad agosto, le colline di Bethel, New York, si
trasformarono in un alveare umano, pulsante di musica, colori e un'illusione –
forse ingenua, ma potentissima – di fratellanza universale. Woodstock. Un nome
che ancora oggi evoca un'immagine di pace, amore e armonia. Un'utopia effimera,
certo, ma un'utopia che per alcuni giorni sembrò incredibilmente reale. Nel mio
libro, ho cercato di esplorare le molteplici sfaccettature di quell'evento: la
sua carica rivoluzionaria, il suo impatto culturale e, inevitabilmente, le sue
intrinseche fragilità.
Perché, come spesso accade, l'ombra non tardò a farsi
sentire. Solo pochi mesi dopo, al circuito di Altamont,
quella stessa energia giovanile si trasformò in qualcosa di oscuro e violento.
La tragica morte di Meredith Hunter, nel corso di un concerto dei
Rolling Stones, divenne un simbolo brutale, la smentita cruda e dolorosa
di un sogno di armonia. Ripensandoci oggi, forte della mia prospettiva di
studioso di quel periodo, non posso fare a meno di vedere in Altamont una sorta
di "anti-Woodstock", la manifestazione di quelle tensioni sotterranee
che serpeggiavano in una società in rapida trasformazione.
E poi c'è quell'altro agosto, quello segnato dall'orrore nella villa di Bel Air. La strage perpetrata dalla "famiglia" Manson, con la sua efferata brutalità, sembrava provenire da un'altra dimensione, un'irruzione di caos primordiale nel cuore del sogno americano. All'apparenza, non aveva nulla a che fare con la musica o la corsa allo spazio. Eppure, se ci sforziamo di adottare una prospettiva meno ortodossa, non possiamo ignorare come anche quella violenza insensata possa essere interpretata come un sintomo di un'epoca inquieta, un'eruzione di un disagio profondo che covava sotto la superficie patinata del sogno americano.
Mentre tutto questo accadeva, un'altra rivoluzione,
silenziosa eppure di portata epocale, stava muovendo i suoi primi passi: la
nascita di Arpanet, l'antenato di
Internet. Quasi in contemporanea, i Beatles,
il gruppo che aveva incarnato lo spirito e i sogni di un'intera generazione,
davano il loro ultimo, leggendario concerto improvvisato sul tetto della Apple
Corps a Londra. Questa giustapposizione mi ha sempre colpito: la fine di un'era
analogica, fatta di suoni condivisi, di presenze fisiche e di un'identità
collettiva creata attorno a idoli rock, e l'alba di un mondo digitale, di
connessioni impalpabili e potenzialmente infinite.
Nel corso della mia indagine, e ora ripensandoci con la
consapevolezza di chi ha cercato di decifrare quel periodo attraverso la
scrittura, mi chiedo ancora: qual è il filo sottile che lega questi eventi così
diversi? Forse è la stessa febbrile ansia di cambiamento, la sensazione che il
mondo stesse correndo a una velocità mai vista prima, aprendo nuove frontiere
ma anche rivelando abissi inattesi. Il 1969 fu un anno di eccessi, di speranze
sconfinate e di bruschi risvegli.
E allora, perché non abbandonarci a un'ipotesi più bizzarra?
Immaginare che le vibrazioni sonore sprigionate dalla folla oceanica di
Woodstock abbiano creato delle interferenze inattese con i primissimi segnali
di Arpanet, generando delle piccole anomalie che, in qualche modo, abbiano
potuto contribuire a destabilizzare un equilibrio sociale già precario, fino a
culminare nella follia di Bel Air. O, ancora, fantasticare che l'energia
emotiva sprigionata dall'ultimo concerto dei Beatles abbia viaggiato
nell'etere, influenzando, chissà come, le decisioni degli astronauti sulla
Luna, o magari, in una chiave più inquietante, risuonando con le oscure
pulsioni che animavano le menti deviate della famiglia Manson.
So bene che queste sono solo suggestioni, voli pindarici al
di là della razionalità storica. Ma credo che il fascino del 1969 risieda
proprio in questa sua capacità di evocare connessioni inattese, di spingerci a
cercare un significato più profondo in un arazzo di eventi tanto iconici
quanto, a prima vista, distanti tra loro. Un anno che, nella mia memoria di
tredicenne e nella mia successiva attività di studioso e scrittore, rimane un
enigma affascinante, un nodo cruciale nella storia del nostro tempo, intriso di
sogni, speranze e ombre che continuano a interrogarci.
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