C'è qualcosa di profondamente radicato nell'anima umana che si risveglia al canto di uno stadio, al fruscio di una bandiera, al nome di una squadra di calcio. Diventiamo tifosi, spesso in tenera età, quasi per osmosi familiare o per un'attrazione inspiegabile verso quei colori, quel simbolo. Non c'è un manuale, un corso di laurea per apprendere l'arte del tifo. Semplicemente accade. E, stranamente, questa passione sembra limitata ai nostri confini domestici, incapace di estendersi a gioire pienamente per i successi "altrui", persino quando vestono la maglia della nostra nazione contro avversari stranieri. Una sorta di egoismo sportivo che antepone il proprio orticello emotivo al bene collettivo calcistico. Un egoismo che, quando si tratta della propria squadra, si tramuta in un'unica, ossessiva priorità: la vittoria, a prescindere dallo spettacolo.
È un legame strano, viscerale. Cambiamo partner, a volte persino le nostre convinzioni religiose o politiche, pilastri fondamentali della nostra identità. Ma la squadra del cuore resta un faro incrollabile nella tempesta delle nostre esistenze. Un amore che resiste a sconfitte cocenti, a periodi bui, a giocatori che vanno e vengono. È un patto silente stretto in un momento imprecisato, un vincolo che pare inciso nel nostro DNA emotivo. Un affetto tenace che, per molti, si mantiene vivo anche quando l'interesse per il calcio in generale si affievolisce, lasciando spazio solo alla passione per la propria squadra e, forse, al piacere diretto di scendere in campo. Un amore talmente radicato da trascendere la bellezza del gioco stesso: ciò che conta è il risultato finale, quel misero 1-0 che sancisce la superiorità, anche se ottenuta con un pizzico di fortuna o con una prestazione tutt'altro che memorabile.
Eppure, questo amore incondizionato per i propri colori può paradossalmente generare un sentimento opposto, un'avversione talvolta intensa e irrazionale verso chi supporta la squadra rivale. Persone che nella vita di tutti i giorni si distinguono per la loro moderazione, per la loro capacità di ascolto e di dialogo, si ritrovano improvvisamente animate da un'ostilità palpabile nei confronti dei "nemici" calcistici.
Come è possibile questa metamorfosi? Come può un gioco, pur carico di passione e competizione, scatenare un odio così profondo anche in individui equilibrati?
La risposta affonda, forse, le radici nel complesso
meccanismo dell'appartenenza di gruppo. Il tifo ci lega a una comunità, ci fa
sentire parte di qualcosa di più grande. La squadra diventa un simbolo della
nostra città, della nostra storia, persino di una parte del nostro senso
personale. In questo contesto, la squadra avversaria non è solo un competitor
sportivo, ma rappresenta "l'altro", colui che minaccia il nostro
legame collettivo, che si pone come ostacolo al nostro desiderio di affermazione
e di vittoria.
La competizione sportiva, con la sua polarizzazione tra vincitori e vinti, acuisce questa dinamica del "noi" contro "loro". La sconfitta della nostra squadra viene percepita quasi come una ferita personale, un affronto al nostro senso di appartenenza. E l'oggetto di questa frustrazione, di questo dispiacere, diventa inevitabilmente la squadra che ha inflitto la "sofferenza".
Anche le rivalità storiche, spesso alimentate da campanilismi, da episodi controversi o da una lunga tradizione di sfide al vertice, contribuiscono a sedimentare un sentimento di ostilità che travalica la semplice competizione sportiva. Diventa quasi un imperativo morale schierarsi, difendere i propri colori con ardore, e di conseguenza, "detestare" sportivamente l'avversario.
È un paradosso affascinante e a volte inquietante. Il calcio, nato come un gioco, si trasforma in un potente catalizzatore di emozioni, capace di unire folle oceaniche sotto un'unica bandiera ma anche di erigere muri invisibili tra persone altrimenti pacifiche. Comprendere le dinamiche psicologiche e sociali che sottendono a questo fenomeno è fondamentale per vivere la passione sportiva in modo più consapevole e costruttivo, senza cedere a derive di odio e violenza che nulla hanno a che vedere con la bellezza del gioco. Perché, in fondo, al di là dei colori e delle rivalità, resta la comune umanità e il rispetto per l'altro, valori che dovrebbero sempre prevalere, anche sul terreno di gioco. E, forse, riscoprire il piacere puro del gioco, come quando si scende in campo in prima persona, al di là delle bandiere e degli schieramenti, o accettare che, per la propria squadra, anche una vittoria risicata e sofferta ha un sapore dolce e appagante.
Facile esercizio nel momento della riflessione casalinga, molto più complicato da realizzare quando l'arbitro fischia!
Nessun commento:
Posta un commento