Nel giorno in cui la pietra ha ceduto al canto, il muro si è fatto musica e memoria
Berlino, 9 novembre — C’è una crepa nel cemento che non si vede, ma si sente. È
il suono di un muro che crolla, non sotto i colpi di un martello, ma sotto il
peso della memoria. Trentasei anni fa, in una notte che sembrava come le altre,
la città divisa divenne improvvisamente intera. Il Muro di Berlino, quel
serpente di pietra che aveva tagliato in due il cuore d’Europa, smise di essere
barriera e divenne rovina. E in quella rovina, molti videro un palco.
Roger Waters lo vide. Lo sentì. Lo trasformò.
Nel luglio del 1990, meno di un anno dopo la caduta, il membro
dei Pink Floyd portò “The Wall” proprio lì, tra le macerie ancora
fresche, in un concerto epico che sembrava più un rito di purificazione che uno
spettacolo. Ma la storia era iniziata molto prima.
“The Wall”, l’album, era uscito nel 1979, dieci anni prima
che il muro vero cadesse. Parlava di alienazione, di isolamento, di un uomo che
costruisce un muro intorno a sé per proteggersi dal dolore. Era un muro
mentale, emotivo, ma non meno reale. E quando quello di Berlino cadde, il
parallelo fu inevitabile. Il muro di Pink, il protagonista dell’opera, e quello
di Berlino si specchiarono l’uno nell’altro: entrambi costruiti per difendersi,
entrambi destinati a crollare.
“All in all,
it was just a brick in the wall…” cantavano i bambini nel coro.
Ma quel mattone, quel
singolo gesto di divisione, moltiplicato per migliaia, aveva creato una
prigione. E il 9 novembre 1989, la prigione si aprì.
Immaginiamo la scena: la notte berlinese, fredda ma vibrante,
illuminata non dai riflettori ma dalle lacrime. Gente che si arrampica, che
abbraccia sconosciuti, che passa da Est a Ovest come se fosse un sogno. E in
sottofondo, anche se non suonava davvero, si poteva sentire “Comfortably Numb”, quel solo di chitarra che sembra una liberazione, una fuga, un volo
sopra le rovine.
Il Muro era caduto. Ma “The Wall” restava, come monito, come
specchio. Perché i muri non sono solo di cemento. Sono nelle scuole che non
ascoltano, nei governi che dividono, nei cuori che si chiudono. E ogni 9
novembre, dovremmo ricordarlo.
Oggi, mentre Berlino vibra di commemorazioni e il mondo si
ferma a pensare, forse dovremmo riascoltare quell’album. Non come colonna
sonora di un’epoca, ma come avvertimento eterno. Perché ogni muro ha il suo
giorno. E ogni giorno può essere il 9 novembre.

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